Gli imputati erano accusati di aver portato armi durante i controlli e di averle puntate contro i militari, ma ora sono proprio loro a rischiare un procedimento per calunnia e falsa testimonianza. Secondo i giudici, infatti, si sarebbero inventati tutto per ritorsione: “Si ritenevano intoccabili, tanto da non poter essere sanzionati”
[sc name=”facebook2″ ][/sc]Da guardie venatorie, si sarebbero permessi di sanzionare le persone “sbagliate”, cioè tre carabinieri, di cui uno in pensione, che avrebbero organizzato una battuta di caccia al cinghiale, di notte, all’interno di un’area protetta – il Parco delle Madonie – e senza alcuna autorizzazione. Per questo, come ha stabilito il tribunale di Termini Imerese, i militari si sarebbero inventati delle false accuse contro le guardie, G. P. e L. P., ovvero di essere stati minacciati dai due con una carabina e una pistola, che non avrebbero potuto peraltro portare con loro durante i loro pattugliamenti. False accuse, così le giudica il collegio presieduto da Vittorio Alcamo, che hanno fatto però finire sotto processo i due, che ora, però sono stati del tutto scagionati. Ma sono stati anche trasmessi gli atti alla Procura perché vagli le ipotesi di calunnia aggravata e falsa testimonianza, a carico di quelli che avrebbero dovuto essere le vittime nel dibattimento.
Una storia paradossale dove gli imputati diventano le parti offese e viceversa, che sarebbe stata inventata, secondo il tribunale, per ripicca. I giudici hanno accolto le tesi dell’avvocato Michele Calantropo e dell’avvocato Spallino, che difendevano le guardie venatorie, ma anche la richiesta del pm, che aveva invocato – alla luce di quanto emerso durante il processo – pure lui l’assoluzione.
“Hanno mentito per ritorsione dopo la denuncia per caccia di frodo”
I giudici rilevano subito la “assoluta inattendibilità dei tre testimoni”, cioè i carabinieri sanzionati, che “hanno precostituito una versione dei fatti artatamente falsa al preciso scopo di sovvertire la denuncia a loro carico per caccia di frodo in zona soggetta a vincolo ed in orario serale. E’ pacificamente emerso – si legge nella sentenza – che i tre stessero effettivamente esercitando la caccia in violazione delle norme e, per ritorsione nei confonti delle due guardie venatorie, abbiano deciso di concordare una falsa versione dei fatti, accusandoli di aver portato durante il servizio delle armi, addirittura puntandole contro di essi. Appare evidente che si tratti di una condotta molto grave che va ben oltre il mero giudizio di inattendibilità delle fonti di prova ma che, al contrario, integra in pieno il delitto di calunnia aggravata e falsa testimonianza”. Ma si sottolinea anche che i tre “si sono spinti molto oltre, accusando un maresciallo dei carabinieri di Castelbuono di abuso in atti d’ufficio e omissione di atti d’ufficio, a conferma della assoluta gravità della loro condotta illecita”.
“Le menzogne sugli orari per evitare la sanzione”
Tutto nasce dalla dalla denuncia presentata da A. S., il carabiniere in pensione, assieme ai colleghi A. D. S. e F. M. il 5 febbraio del 2018. Una querela che, per il tribunale, sarebbe piena di falsità, alle quali si sarebbero poi aggiunte le dichiarazioni fatte durante il processo dai carabinieri. La prima di queste “falsità” riguarda “gli orari descritti con la chiara intenzione di anticipare i tempi della battuta di caccia per evitare di incorrere nella violazione di averla esercitata in orario notturno”. A. S. sostenva di “aver fatto una battuta di caccia al cinghiale, intorno alle 15, del 9 novembre del 2017, con auto e cani” con gli altri due. Tra “le 15 e le 17 aveva ucciso un cinghiale e i cani si erano messi sulle tracce dell’animale”, e tutti alla fine avevano seguito i cani. “Le due guardie venatorie a mezzanotte e 25 notavano i fari della loro vettura e li fermavano per un controllo” e, dice il tribunale, “sulla scorta di tali tempistiche non si comprende cosa abbiano fatto i tre soggetti tra le 17 (o anche le 18) e mezzanotte e 25, posto che una ricerca dei cani protrattasi per oltre 6 ore appare poco verosimile”.
“I tabulati dimostrano che uno dei carabinieri era Sciacca”
E “la verità – scrive il tribunale – è che la battuta di caccia era iniziata non alle 15, ma molto dopo” e lo “si ricava dall’esame dei tabulati dell’utenza intestata ad A. S. Alle 15.33 era a Sciacca, alle 16.04 era a Santa Margherita Belice e alle 17.02 (orario di inizio della presunta ricerca dei cani dopo l’abbattimento del cinghiale a Castelbuono) era a Brancaccio. Alle 17.40 era a Cefalù, alle 18.50 agganciava la cella di Pollina. Alle 20.59 si verifica la prima localizzazione di A. S. nelle Madonie”.
“Falso pure l’orario di uccisione del cinghiale”
Un’altra “falsità riguarda l’orario dell’uccisione del cinghiale rinvenuto dalle guardie venatorie” perché “alle “5.45 nella stazione dei carabinieri di Castelbuono il veterinario constatava che il sangue dell’animale era ancora fresco e gocciolava, ‘segno evidente che l’animale era stato cacciato da qualche ora’, non quindi 12 ore prima”, ovvero alle 15, come sostenuto dal carabiniere in pensione.
“Sono arrivati e ci hanno puntato le armi contro”
A dire dei cacciatori, poi, ad un certo punto sarebbero stati fermati da due uomini, che senza qualificarsi, avrebbero chiesto loro i documenti e avevano con sé le due armi. “Addirittura l’uomo con la mitraglietta gliela puntava verso l’addome con fare intimidatorio”, scrivono i giudici, che rimarcano però come le guardie “indossavano due pettorine con l’indicazione esplicita del loro ruolo”. Alla richiesa di documenti A. S. si rifiutava di esibirli, si qualificava come carabiniere in pensione e chiedeva lui agli imputati i loro documenti. A chiamare i carabinieri, però, vista la situazione, erano stati proprio gli imputati all’1.42.
“Il maresciallo non ha voluto verbalizzare e controllare”
I cacciatori sostengono di aver subito segnalato ai loro colleghi carabinieri che gli imputati fossero armati, ma questo è smentito dai militari che intervennero. Di più, A. S. ha addirittura affermato che il maresciallo gli avrebbe risposto “questo non mi riguarda” e poi si sarebbe rifiutato di verbalizzare la circostanza e di controllare. Rimarcano i giudici: “Accusando le due guardie venatorie solo dopo che erano andate via (e dunque quando non era più possibile verificare il possesso delle armi da parte loro) le affermazioni di A. S. non avrebbero ptouto essere totalmente smentite e potevano costituire un’astratta fonte di accusa nei loro confronti (cosa dimostrata dal fatto che si è giunti fino alla celebrazione di un dibattimento proprio per tale delitto)”.
“Tutte calunnie solo perché si ritenevano intoccabili”
“Il comportamento calunnioso di A. S. (ma anche degli altri due carabinieri, ndr) non risulta solo doloso – stigmatizza il tribunale – ma anche finalizzato a precostituire false prove a carico degli accusati che egli sapeva, con totale certezza, innocenti. La causale di tale condotta riposa nel fatto che le due guardie si erano permesse di sanzionare lui che evidentemente si riteneva intoccabile in quanto ex carabiniere”. Infine, è provato che per quell’8 novembre non era stata autorizzata alcuna caccia al cinghiale e dunque la battuta “si è svolta con modalità del tutto irregolari all’interno di un parco protetto e fuori dagli orari consentiti”. Da qui l’assoluzione per le guardie venatorie. E ora anche il probabile procedimento per calunnia e falsa testimonianza a carico dei tre carabinieri che li avevano accusati.