Peggio la toppa del buco, fino a creare le condizioni per una condanna addirittura per frode processuale: e così, per essersi tenuti 11mila euro perquisendo casa di uno spacciatore arrestato, e poi, quando hanno iniziato a temere di essere scoperti, per essere tornati a casa per rimetterceli, nonché per essere entrati nel sistema informatico delle intercettazioni allo scopo di cancellare due frasi che potevano comprometterli, il vice brigadiere L.i M. e l’appuntato scelto G. G. dei carabinieri in servizio nel 2017 a Rho sono stati condannati in primo grado — rispettivamente a 5 anni e 1 mese e a 4 anni e 11 mesi — per le ipotesi di reato di falso ideologico e materiale, accesso abusivo a sistema informatico, frode in processo penale e peculato.
La storia — sfociata giovedì nella sentenza del giudice della decima sezione penale del Tribunale — sarebbe potuta emergere già nel 2018 da una colorita segnalazione, contro colleghi che avevano voluto «insabbiare», firmata da un altro militare: che però ne aveva ricavato un processo disciplinare, una denuncia alla Procura militare di Verona per insubordinazione (assolto), e un trasferimento.
Alla fine di un movimentato inseguimento a Stezzano, in provincia di Bergamo, era capitato che il 18 settembre 2017 i carabinieri di Rho avessero sequestrato 250 chili di marijuana e arrestato un cittadino marocchino in una grossa inchiesta antidroga della Procura milanese, ma avessero attestato di non aver trovato nulla nella perquisizione a casa a Dalmine.
Tanto che, quando la moglie dell’arrestato aveva telefonato in caserma e detto che non trovava più 11mila euro, i due carabinieri le avevano assicurato che si sbagliava di sicuro. Ma a spiazzare i carabinieri era stato il fatto che alle 21.10 del 19 settembre l’arrestato, chissà come con un cellulare, dal carcere avesse telefonato alla moglie intercettata e discusso con lei dei soldi spariti nella perquisizione: «Hai visto che ladri che sono?», «Adesso hai visto che hanno portato via 11».
I due carabinieri inventano quindi una sopravvenuta esigenza investigativa per chiedere il 20 settembre l’ok a una nuova perquisizione, che il pm dell’indagine antidroga (pur senza poter immaginare che vogliano farla per poter rimettere in casa il denaro) comunque nega; e allora i carabinieri ripiegano sul tornare lo stesso a casa, attestando d’aver reincontrato per caso la donna, di esserne stati invitati a salire a casa, e lì di averla aiutata a cercare meglio i soldi e a ritrovarli.
Ma siccome resterebbe il problema dell’intercettazione, uno dei due carabinieri, che per servizio avevano legittimo accesso al sistema di intercettazione Mcr della società privata ausiliaria dei magistrati alle 12.13 del 20 settembre modifica la trascrizione e cancella le due frasi sui soldi portati via.
Cancellazioni che i file di «log» sono in grado di tracciare a ritroso, sempre però che ci sia un motivo di sospetto per andare a verificare. E qui si è innestata l’indagine della pm milanese Cristiana Roveda con i carabinieri di Monza, che ha sviluppato tre spunti: l’interprete marocchino accortosi della discrepanza tra audio e trascrizione; un esposto anonimo del 12 febbraio 2019; e il ripescaggio appunto della relazione del 2018 del carabiniere tartassato.
La difesa confida nell’accoglimento in Appello delle proprie controargomentazioni, volte a evidenziare quelle che per i legali sono solo deduzioni poste alla base della condanna dei militari, e a valorizzare le loro eccellenti «note caratteristiche» e i loro 20 e 30 anni di servizio apprezzato dall’Arma.