Rocco Morabito estradato dal Brasile: il boss della ‘ndrangheta rientrato in Italia dopo 30 anni

Rocco Morabito
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Già massimo ricercato d’Italia, secondo soltanto a Matteo Messina Denaro, il 55enne Rocco Morabito, appena sbarcato nella notte all’aeroporto di Ciampino dopo il sì brasiliano all’estradizione, è stato (e forse rimarrà) avanguardia pura della ‘ndrangheta. Nella definizione, coniata da un alto ufficiale dei carabinieri che gli diede la caccia infine scoprendo i tre ipertecnologici bunker nella villa di Africo, uno dei piccoli paesini calabresi culle delle cosche, si sintetizzano le coordinate criminali di Morabito. Il quale, sparito da trent’anni, non voleva la galera italiana come non la gradisce la medesima ‘ndrangheta.

L’evasione
Lui, fra i primissimi a insistere sull’apertura internazionale delle cosche e divenuto il re dei broker della cocaina, avrebbe preferito una prigione come quella di Montevideo, dove infatti, nel giugno 2019, approfittando di favori interni nonché di una struttura debole nei sistemi di sicurezza, evase in agio. Senza contare che nei penitenziari sudamericani sono frequenti le ribellioni che innescano fughe di massa e, in generale, la fragilità di certe nazioni, a rischio di derive autoritarie o colpi di Stato, rimescola ogni aspetto della società civile, insomma comprese anche le prigioni e chi le comanda, aprendo improvvisi scenari inaspettati purché uno sia pronto con la testa, le gambe e il portafoglio.

Quanto alle cosche, Rocco Morabito, del quale si elogiano le capacità di scacchista d’anticipare le mosse con sorprendente astuzia, e del quale inoltre si ripete la certezza d’essere un unto del Signore, un intoccabile, uno che anche qualora cadesse mai affonderebbe, è personaggio scomodo. Qui, in Italia. Conserva ramificati segreti su infinite trame, e fa niente se queste si siano ambientate per lo più tra Argentina, lo stesso Uruguay che lo vide recluso, e da ultimo il Brasile teatro dell’arresto definitivo, che reca il marchio del Ros dei carabinieri.

La «partita»
Era il maggio dello scorso anno. Forte di pesanti conoscenze nell’intero continente, Morabito era convinto forse non tanto di allontanarsi di nuovo dalle celle, quanto piuttosto di imbrogliare le carte ed evitare il rimpatrio. E difatti, nella complicata partita che regola le estradizioni, dove basta la riga scritta male di un fax o un cavillo burocratico a invalidare il provvedimento, l’iniziale partenza del boss era stata rimandata. In agenda, gli investigatori italiani sarebbero dovuti andare in Brasile sette giorni fa; l’hanno fatto soltanto domenica, ma è un ritardo ben accetto in quanto la magistratura e la diplomazia sono venute a capo del caso.

Seppur in ritardo rispetto a quanto previsto, l’atterraggio del Falcon con a bordo Morabito è stato modulato per le 2.45; ora lo aspettano il canonico iter e soprattutto il carcere duro. Soprannominato nel poco sofisticato alfabeto della ‘ndrangheta ‘u tamunga in quanto proprietario di una Munga, un fuoristrada di fabbricazione tedesca, fin da giovane Morabito ha cercato, anche esteticamente, di distanziarsi dai classici schemi degli uomini di ‘ndrangheta, uno smarcamento avvenuto grazie anche alle frequenti permanenze a Milano.

Del resto il feudo calabrese gli stava stretto, lui guardava al mondo, e non è un caso che, in quegli anni di Africo e di perquisizioni dei carabinieri, vivesse nella villa con una donna portoghese, di grande eleganza, affabile e sofisticata, la quale accoglieva gli investigatori in vestaglia manifestando una naturale calma al contrario di famigliari di ricercati che strepitano, ostacolano le operazioni, minacciano azioni legali. Dopodiché c’era, in quei bunker iper-tecnologici, non unicamente l’aspirazione di un potente boss a servirsi del meglio sul mercato per la propria «protezione», ma anche l’esempio pratico della necessità di svecchiarsi, di guardare al futuro, di uscire da una logica provinciale che contemplava schemi prefissati in quanto eredità di padri, nonni, zii, suoceri.

I successori
Se è giusto, con questa estradizione, parlare di «fine» per Rocco Morabito, s’aprono innegabilmente infiniti interessi sul tesoro assemblato nella longeva latitanza, sulle persone in debito col boss, su quelle che conservano informazioni sugli affari e le valigie piene di banconote, su eventuali politici a libro paga, e anche sul futuro dell’assenza di Morabito. Nonostante gli anni recenti siano stati caratterizzati dalla scomparsa dell’anonimato con gli arresti e le detenzioni, comunque il boss era là, in Sudamerica. Aveva un posto, aveva un ruolo. Ma dai concorrenti e dai rampanti era anche considerato – la storia del crimine gira come tutte le altre storie – uno dell’antichità, uno che aveva vissuto la sua epoca. E siccome è la droga che detta il ritmo, ovvero il denaro, sarà già bagarre per riempire il vuoto lasciato da u’ tamunga. Che dunque, la Cupola albanese in stretti rapporti con i narcos sudamericani, dopo aver scalato posizioni passando da ruoli da galoppini a quello di prima inter pares, festeggerà il ritorno in Italia di Morabito, potrebbe non essere soltanto una leggenda o uno di quei racconti gonfiati dal patriottismo e della megalomania balcanica.

Fonte: Corriere.it

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