Le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per lo Stato italiano sono carta straccia.
L’ultimo caso in ordine di tempo di non esecuzione di una di queste sentenze riguarda quello del maxi risarcimento per ingiusta detenzione nei confronti dell’ex dirigente della polizia di Stato e dei servizi Bruno Contrada. L’alto funzionario, ora novantenne, venne arrestato alla vigilia di Natale del 1992 su richiesta dell’allora procuratore di Palermo Giancarlo Caselli.
Al termine di un iter processuale quanto mai complesso i cui elementi di prova erano le dichiarazioni di alcuni pentiti, Contrada era stato condannato in via definitiva nel 2007 a dieci anni di reclusione, quasi tutti poi scontati in regime detentivo, per concorso esterno in associazione mafiosa.
Nel 2015 la Cedu, a cui gli avvocati di Contrada si erano rivolti, aveva però stabilito che questa condanna dovesse essere cancellata. «Il reato contestato di concorso esterno è il risultato di un’evoluzione giurisprudenziale iniziata alla fine degli anni 80 del ‘900 e che si è consolidata nel 1994 con la sentenza della Cassazione “Demitry” e i fatti contestati a Contrada risalgono agli anni Ottanta», scrissero i giudici di Strasburgo. Non essendo quindi il reato contestato sufficientemente chiaro, né prevedibile, Contrada non avrebbe potuto conoscere le pene in cui sarebbe incorso.
Per tale motivo l’Italia aveva violato l’articolo 7 della Convenzione dei diritti dell’uomo secondo il quale nessuno può essere condannato per un’azione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Il governo italiano aveva anche presentato ricorso alla Grande Chambre contro tale pronuncia ma era stato respinto.
Forte di questa sentenza, Contrada aveva chiesto e ottenuto dall’allora capo della Polizia Franco Gabrielli di revocare il provvedimento di destituzione emesso contro di lui a gennaio del 1993, chiedendo il reintegro seppure come pensionato, e contestualmente il risarcimento per l’ingiusta carcerazione patita. La Corte d’appello di Palermo, competente sul punto, nel 2020 riconosceva a Contrada un risarcimento pari a 667mila euro.
La pronuncia veniva impugnata in Cassazione dalla Procura generale del capoluogo siciliano. La Cassazione annullava la decisione della Corte d’Appello, disponendo un nuovo giudizio. I giudici di piazza Cavour scrissero che “non vi è in effetti alcuno spazio per revocare il giudicato di condanna presupposto”. In altre parole se la sentenza di condanna e i suoi effetti devono essere annullati, Contrada ha comunque commesso le condotte contestate e quindi non ha diritto ad alcun risarcimento.