Più di 25 anni trascorsi in strada indagando su traffico di droga, omicidi, e criminalità organizzata in una delle province del nord Italia, quella di Imperia, a maggior tasso di presenza mafiosa.
Poi lo scontro con i superiori che lo avevano pressato per ottenere i risultati, il confinamento in un ruolo da passacarte e l’insorgere dello stress.
Poliziotto e riconoscimento della causa di servizio
Un assistente capo della polizia ha ottenuto dopo una lunga battaglia il riconoscimento “della causa di servizio per l’infermità costituita dalla sindrome di burn out”.
«E’ il primo caso in Italia» spiega il suo legale, l’avvocato Giovanni Carbone di Sanremo che ha ottenuto davanti al Tar Liguria, il Tribunale amministrativo regionale, una non scontata vittoria.
«Il mio assistito – spiega l’avvocato – è stato un poliziotto con incarichi di coordinatore nella squadra di polizia giudiziaria e per tutta la sua carriera è stato impegnato su vari fronti criminali. Servizi spesso in strada, anche in giro per l’Italia, straordinari su straordinari, a volte con turni di 24 ore senza soste. Ma sopracuto era sempre sottoposto ad una fortissima pressione dalle gerarchie. Le ha sempre sopportate perché interpretava il suo lavoro come una missione ma quando le incomprensioni con i vertici lo hanno strappato ai compiti investigativi per finire in un ufficio è come si dice “scoppiato”, il burn out è una sindrome che anche in Italia comincia ad essere riconosciuta in ambito lavorativo e questa sentenza lo conferma».
Anche se non è escluso il ricorso del Ministero dell’interno al Consiglio di Stato quanto scritto dai giudici del Tar Liguria è significativo.
Poliziotto e sindrome di “Burn out”
La sindrome di burn out era stata riconosciuta all’assistente capo da un medico della Asl 1 imperiese nel 2019, e confermata dalla Commissione medica ospedaliera militare di La Spezia. Il poliziotto era stato dispensato dal servizio. Ma nel 2021 il Comitato di Verifica per le Cause di Servizio del Viminale aveva espresso parere contrario alla “domanda di riconoscimento della dipendenza da causa di servizio della patologia”.
Ma, scrivono i giudici del Tar che hanno accolto il ricorso, il Comitato di verifica “pur avendo esso riconosciuto la sussistenza della sindrome, non ha debitamente tenuto in considerazione i caratteri propri di tale patologia e, quindi, non ha correttamente valutato la sussistenza del nesso eziologico tra l’attività lavorativa svolta dal ricorrente e la malattia”.
E fanno proprie le considerazioni del medico della Asl 1: “Da un punto di vista eziopatogenetico, all’origine del suo disturbo psico-somatico, si è rivelata centrale e determinante il vissuto svalutativo di un ruolo professionale costruito con fatica, sacrificio e abnegazione in quasi trent’anni di servizio eccellente; questo ha minato alla base la sua identità professionale andando ad inquinare le fonti principali della sua motivazione al lavoro e ad incrinare la qualità di alcuni suoi strategici rapporti professionali….una forte percezione di ingiustizia … nell’ambito di una struttura di personalità fortemente ancorata ad un impianto etico molto ben radicato, ha prodotto effetti estremamente deleteri compromettendo in modo profondo e irrimediabile un iter professionale di lungo corso che lui aveva vissuto in prima persona molto più che come un semplice “lavoro”…. Con queste premesse e in queste condizioni il risultato non poteva che essere una vera e propria sindrome di burnout”.