L’Italia non è un Paese per giovani. Chi inizia a lavorare ora andrà in pensione a 71 anni, l’età più alta tra paesi Ocse dopo la Danimarca. Lo rileva l’Ocse nel Rapporto “Pensions at a glance” spiegando che il dato è legato all’aspettativa di vita.
«Per chi entra ora nel mercato del lavoro — si spiega — l’età pensionabile normale arriverà a 70 anni nei Paesi Bassi e in Svezia, a 71 anni in Estonia e Italia e a 74 anni in Danimarca. Nel 2023, «l’età pensionabile legale in Italia è di 67 anni», in forte aumento dopo le riforme attuate durante la crisi finanziaria.
In Italia si lascia il lavoro oggi a 65 anni, in linea con la media Ocse (64,1). Per chi comincia a lavorare ora invece l’età media di uscita, a meno di nuove norme per l’anticipo, supererà di circa quattro anni la media Ocse. L’Italia è uno dei nove paesi Ocse, spiegano i ricercatori, che vincolano il pensionamento in base al requisito anagrafico alla speranza di vita.
«In un sistema contributivo tale collegamento non è necessario per migliorare le finanze pensionistiche, ma mira a evitare che le persone vadano in pensione troppo presto con pensioni troppo basse e per promuovere l’occupazione», aggiungono gli esperti. Nel nostro Paese i tassi di occupazione nelle fasce di età più anziane (60-64 anni) , spiega l’Ocse, sono al livello più basso dopo la Francia e la Grecia.
Per chi comincia a lavorare ora intorno ai 22 anni oggi si prevede, posto l’aumento dell’aspettativa di vita, l’uscita dal lavoro a 71 anni. L’unica notizia positiva è l’importo della pensione. I ricercatori Ocse stimano che l’assegno varrà circa l’83% dello stipendio al momento del ritiro a fronte del 61% medio dell’Ocse. Si legge poi nel report: «Le possibilità di andare in pensione prima dell’età pensionabile prevista dalla legge risulta vantaggiosa.
La concessione di benefici relativamente elevati a età relativamente basse nell’ambito delle Quote contribuisce alla seconda più alta spesa per la pensione pubblica tra i paesi Ocse, al 16,3% del Pil nel 2021. Sebbene l’aliquota contributiva sia molto elevata, le entrate derivanti dai contributi pensionistici rappresentano solo l’11% circa del PIL e necessitano di ingenti finanziamenti fiscalità generale».