«Chi è stato un militare, lo è e lo sarà per sempre», anche quando aver indossato una divisa ti costringe a combattere con un nemico invisibile che ti ferisce senza che tu possa avere la possibilità di difenderti. Un “avversario” che non ha un volto, ma ha un nome e cognome: uranio impoverito, una “super arma” che polverizza tutto ciò che incontra e uccide, a distanza di tempo e luogo, nel silenzio più assordante, come quello calato sui soldati contaminati durante le missioni all’estero.
Anche il colonnello Carlo Calcagni combatte quotidianamente con i segni che quell’incontro in Bosnia-Erzegovina ha lasciato sul suo corpo, ma non nell’anima. Cicatrici che hanno fortificato il combattente, diventato orma simbolo di resilienza.
Nel 1996, il Capitano – con tanti sogni nel cassetto e in testa il senso del dovere ed il desiderio di aiutare un popolo martoriato dalla guerra e di salvare le vite umane – era di stanza a Sarajevo, unico pilota di elicotteri del primo Contingente Italiano che faceva parte della Forza Multinazionale di pace della NATO, sotto l’egida delle Nazioni Unite. Il suo compito era quello di pianificare ed effettuare tutte le missioni di volo necessarie, tra cui ricognizioni, trasporto e attività di soccorso, sia ai militari e civili feriti, sia attività di recupero dei corpi ormai senza vita.
Servizio “Medevac” (evacuazione medico-sanitarie), per usare i termini corretti, ma in volo sulle zone di guerra si è imbattuto in quello che sarebbe diventato il suo nemico numero uno. Le polveri generate dai proiettili con l’uranio impoverito hanno “invaso” e si sono “impossessate” del suo corpo, distruggendo ogni organo vitale. Un militare mette in conto di morire sul campo di battaglia, ma di ammalarsi per qualcosa di “invisibile”, di cui nessuno ha mai “informato”, pur sapendo ha taciuto, questo proprio NO.
Se qualcuno lo avesse avvertito dei pericoli che avrebbe incontrato, per senso del dovere e per amore di Patria, Calcagni sarebbe partito comunque. «Tu, che sei un militare dentro, ci saresti andato lo stesso, ma magari avresti preteso e ottenuto un equipaggiamento degno di questo nome. E ora la tua vita sarebbe diversa, migliore. Non attaccata ad un ventilatore polmonare e dipendente da migliaia di medicine» racconta «le vittime dell’uranio rientrano con le proprie gambe dalle aree di conflitto per poi soffrire in solitudine, mentre i commilitoni che saltano sulle bombe rimpatriano come eroi di guerra. A noi nessuno aveva mai detto che durante le missioni si potevano contrarre malattie mortali. Lo Stato però era a conoscenza del pericolo reale derivante da uranio impoverito fin dal 1978, quando gli americani ne testarono il pericolo letale e di questo informarono i vertici militari e politici italiani. I responsabili verranno mai perseguiti e puniti? I soldati, invece, continuano a morire per avere fatto il proprio dovere!»
Sono anni che lotta per riconquistare ciò che l’uranio impoverito gli ha tolto. Ferite che hanno nomi ben precisi, quelli della lunga lista di diagnosi. Dai suoi polmoni sono già stati asportati chirurgicamente diversi noduli ed altri se ne sono formati. Tiroide ed ipofisi non funzionano. È affetto da mielodisplasia (in attesa di un donatore compatibile per effettuare il trapianto di midollo), fibrosi polmonare con interstiziopatia ed insufficienza respiratoria, cardiopatia, insufficienza renale, epatopatia cronica, pancreatite, ipossia tissutale, perdita della sensibilità agli arti, sensibilità chimica Multipla (MCS), sclerosi multipla cerebrale ed anche il morbo di Parkinson.
Un elenco infinito e non esaustivo di severe patologie multiorgano che non lasciano scampo e che, pure a volerle considerare singolarmente, a chiunque porterebbero via la voglia di continuare a lottare e forse anche la voglia di continuare a vivere.
Ma Carlo Calcagni non è “chiunque”. Lui è uno che non si è mai lasciato affondare dalle mareggiate, nemmeno da quelle più violente che sferzano la barca per costringerla ad invertire la rotta.
“Pedalando su un filo d’acciaio”, la biografia esempio di un inno alla vita
Quella di Carlo Calcagni è la storia di un uomo straordinario che, seppur fortemente provato dalla malattia, ha ritrovato comunque la forza di vivere grazie all’amore della sua famiglia, ma anche allo sport. Una storia che racconterà a Miggiano, comune in provincia di Lecce, dove presenterà il suo libro/biografia “Pedalando su un filo d’acciaio”. Un concentrato di emozioni, scritto con il cuore, un inno alla vita che prova a donare speranza.
«Sono un Padre, sono un figlio e sono un uomo, prima ancora che un militare! La mia passione la bicicletta, l’ho dovuta adattare alla mia nuova tormentata situazione sanitaria. Adesso è un Triciclo!» racconta.
«Il dolore, la sofferenza, si accumula alla rabbia quando scopri che il tuo corpo si sta distruggendo non per un colpo di fucile, non per l’esplosione di una mina, ma per un vile attentato alla tua vita da parte di chi avrebbe dovuto proteggerla: la tua Patria! Vorrei tanto sperare che non sia così, ma devo andare avanti! ».
[sc name=”pubblicit” ][/sc]Poi l’appello principale per ritrovare onore e orgoglio. «Tutti i miei organi riportano danni, ma non sono solo. Purtroppo non è successo solo a me! Ci sono altri commilitoni! Ragazzi che muoiono lentamente senza reagire, abbandonandosi, arrendendosi tristemente, alzando la bandiera bianca! E per noi militari arrendersi è la peggiore situazione morale: Arrendersi mai! » dice nel suo più importante messaggio, un mai arrendersi che non sono solo parole perché Calcagni è abituato a dare l’esempio con i fatti.
Importanti le parole della Senatrice Daniela Donno, Capogruppo del Movimento Cinque Stelle in Commissione Difesa: “Ancora oggi, la drammaticità dei danni provocati da una sconsiderata gestione della tutela dei nostri militari, costituisce un carico morale da cui nessuno può esimersi. Non possiamo più accettare che persone come Carlo Calcagni debbano vivere per curarsi dall’uranio impoverito e debbano combattere contro uno Stato che invece ha l’obbligo di difenderli e tutelarli. Carlo chiede ora un solo euro di risarcimento, simbolico, unito però a scuse pubbliche. Io dico che le scuse sono dovute. Ed è per questo che lo faccio personalmente io, nelle vesti istituzionali di Capo Gruppo M5S della Commissione Difesa del Senato della Repubblica: “scusa Carlo”.