Era una banda di sette persone. Che già aveva colpito, su quella stessa strada. E ha continuato a farlo anche mesi dopo aver ucciso l’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro autista, Mustafa Milambo. Cercavano “uomini bianchi” per sequestri lampo, così da incassare ricchi riscatti nel giro di poche ore. Cinquantamila dollari, almeno. E non sapevano che a bordo di quel convoglio fermato il 22 febbraio del 2021 viaggiasse un diplomatico.
Nessuna premeditazione, quindi. Ma un sequestro finito male. E’ questa la conclusione a cui è arrivata l’indagine congolese sulla morte del nostro ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci, uccisi lo scorso anno durante il viaggio – organizzato dal Pam, il Programma alimentare mondiale, l’agenzia delle Nazioni Unite – in un villaggio nel Nord-Este del Congo, I carabinieri del Ros sono rientrati infatti dopo una spedizione di alcuni giorni nella quale hanno ottenuto dalle autorità del paese africano tutti gli atti dell’inchiesta condotta dalla procura militare di Kinsasha che ha portato in galere cinque persone della banda: uno è ancora latitante, il capo, Amos Mutaka Kiduhaye. Mentre il settimo è morto nei mesi scorsi.
Toccherà ora al procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, che indaga in Italia sulla morte di Attanasio, decidere se iscrivere i nomi dei cinque nel registro degli indagati. Nelle prossime settimane i carabinieri depositeranno un’informativa mettendo in fila i documenti acquisiti in Congo. E cercando di fare chiarezza su una serie di incongruenze che comunque emergono.
Da un lato, infatti, i componenti della banda hanno confessato (sembrerebbe anche assistiti da un avvocato, quindi con le garanzie del caso), indicando anche chi, Prince Nashimimana, avrebbe sparato uccidendo i due italiani e il loro autista. Dall’altro, però, avrebbero poco dopo ritrattato o comunque non fornito una versione coerente. Agli atti ci sono però anche indagini compiute dai congolesi che sembrano confermare la versione dei fatti. Innanzitutto i precedenti: la banda colpiva abitualmente su quella strada e lo faceva con un schema ormai rodato. Due di loro seguivano il convoglio per qualche chilometro per poi dare il via libera ad altri due componenti della banda che spuntavano dalla boscaglia, armati di kalashnikov, per bloccare le auto.
A quel punto arrivava il capo del gruppo che chiedeva il denaro per lasciarli andare. Cinquantamila dollari era stata la richiesta fatta agli italiani, che però non li avevano con loro. Ecco perché sono stati fatti scendere dal convoglio, fino all’imprevista sparatoria con Iacovacci che cerca di fare scudo all’ambasciatore senza fortuna.
Se però la procura di Roma deve ancora valutare come procedere nei confronti dei presunti sequestratori e assassini, il procuratore aggiunto Colaiocco è sicuro che ci siano gravi responsabilità da parte del Pam, tanto che ha iscritto nel registro degli indagati due funzionari dell’agenzia, Rocco Leone e Mansour Rwagaza. Secondo la ricostruzione degli investigatori italiani non sarebbero state rispettate alcune norme basilari di sicurezza (era noto che la zona fosse soggetta ad attacchi di predoni, serviva dunque una scorta armata) e, addirittura, alcuni documenti della trasferta risultano alterati. Inoltre, i funzionari del Pam non avrebbero chiesto con l’anticipo dei 5 giorni, come prevedeva la legge, l’autorizzazione al trasferimento in modo da avere la scorta armata; hanno fatto spostare l’ambasciatore e gli altri in auto non blindate, con i giubbotti antiproiettile nel bagagliaio. Ma la circostanza ancora più grave riguarda la falsificazione dei nomi dei partecipanti alla missione, omettendo quelli di Attanasio e Iacovacci. Se fossero stati specificati, infatti, avrebbe dovuto essere predisposta in automatico una scorta armata. Che avrebbe salvato loro la vita.