Nel ricordo di Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate rosse, l’arruolamento del prete-spia Silvano Girotto fu una sua responsabilità:«Un po’ di ingenuità, un po’ di disattenzione e una certa sfortuna». L’ormai ex sacerdote missionario reduce dal Sud America, con un passato nella Legione straniera e tra i guerriglieri in Bolivia e in Cile che gli era costata l’espulsione dall’ordine francescana e il ritorno allo stato laicale, nel 1974 aveva cercato un contatto con i rivoluzionari italiani per conto dei carabinieri guidati dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa, e fu proprio Curcio a dargli fiducia, come ha scritto nel suo libro di memorie brigatiste del 1993: «Consultai gli altri. Margherita (Cagol, moglie di Curcio e co-fondatrice delle Br, ndr) confermando il suo sottile intuito, era decisamente diffidente: secondo lei c’era puzza di bruciato e incontrare Girotto poteva essere pericoloso. Franceschini era esitante. Io, francamente. non percepii nulla di sospetto. Decidemmo che avrei visto Girotto assieme a Moretti, in modo che anche lui potesse rendersi conto di che tipo era».
L’appuntamento avvenne sulle montagne piemontesi intorno a Pinerolo, controllato da una quindicina di “compagni” armati. L’ex prete offrì collaborazione ed esperienza, anche Mario Moretti «trasse l’impressione che fosse sincero» e si decise un secondo incontro. Appuntamento per l’8 settembre ’74, sempre dalle parti di Pinerolo. Ma lì scattò la trappola che portò all’arresto di Curcio e Franceschini, i primi due «pesci grossi» caduti nella rete anti-terrorismo tessuta da dalla Chiesa. Un successo dovuto a a «frate mitra»,morto ieri a Torino all’età di 83 anni , a conclusione di una vita in cui l’infiltrazione nelle Br l’ha inserito in un tratto della storia d’Italia del Novecento. L’idea di ingaggiarlo e fargli avvicinare i rivoluzionari che avevano lanciato l’attacco allo Stato con il sequestro del magistrato Mario Sossi (rapito a Genova nel maggio’74), venne dagli articoli pubblicati su alcuni settimanali di destra che ne denunciavano le gesta al fianco dei «guerriglieri comunisti in Algeria e Bolivia». Nel frattempo Girotto era tornato in patria, convinto che la violenza e la lotta armata non potessero fermare le ingiustizie ma provocassero solo altre sofferenze, e quando a casa sua si presentò un ufficiale dei carabinieri del Nucleo di dalla Chiesa chiese tre giorni di tempo per riflettere sulla proposta di infiltrarsi tra i brigatisti, e poi accettò.
Il contatto avvenne tramite un ex partigiano in contatto con le Br. Gli aspiranti guerriglieri italiani decisero di fidarsi e consentirono a «frate mitra» (poi ribattezzato dai brigatisti «frate serpente») di allestire la trappola che portò alla cattura di Curcio e Franceschini. Non però di Moretti, che all’ultimo momento fu avvisato di non recarsi all’incontro dall’ex partigiano, a sua volta messo sull’avviso da una telefonata il cui autore è sempre rimasto anonimo.
Moretti provò a rintracciare Curcio, ma senza successo, e così i carabinieri arrestarono solo due componenti del gruppo dei fondatori. Rimasto libero, di lì a quattro anni Moretti guidò il sequestro e poi decise l’omicidio di Aldo Moro, insieme a un nuovo gruppo dirigente delle Br. Nel frattempo Curcio, Franceschini e altri militanti della prima ora venivano processati e condannati nel processo di Torino (svoltosi nella primavera del 1978, in contemporanea a quello sommario e «popolare» che le Br imposero a Moro, conclusosi con la condanna a morte) nel quale «frate mitra» fu uno dei testimoni dell’accusa.
Davanti alla corte d’assise e ai brigatisti chiusi in gabbia descrisse le scelte che lo portarono ad infiltrarsi nelle Br e poi a deporre nel dibattimento, anche sull’onda del rapimento Moro nel quale erano stati uccisi i cinque uomini della scorta: «Sono qui spinto da un imperativo di coscienza. Per oppormi ai criminali che ancora in quest’aula cercano di imporre un’atmosfera di terrore». A fermare la sua premessa non furono gli imputati, abituati a lanciare proclami e minacce da dietro le sbarre, bensì il presidente della corte: «La sentenza non è stata emessa e qui non ci sono criminali».
Seguirono la sua deposizione e, dopo qualche giorno, le condanne a Curcio, Franceschini e gli altri brigatisti alla sbarra. Girotto ritornò a vivere all’estero, poi ancora in Italia, lasciando che col tempo il suo nome scomparisse dalle cronache e fosse ricordato solo nei libri memorie. Compreso il suo: «Mi chiamavano Frate mitra», pubblicato nel 2002 da una casa editrice cattolica, nel quale ha scritto che «il terrorismo è un’aggressione contro ciascuno di noi, nessuno è spettatore, ne siamo tutti vittime, perché la sua presenza abbassa il livello di civiltà in cui viviamo».
Per fermare le Br occorsero altri anni e altro sangue, ma il capitolo della storia dell’antiterrorismo che ha visto per protagonista l’ex prete resta uno dei più noti e dei più suggestivi. E forse, per alcuni aspetti, ancora misterioso.