«Camminare a testa alta». Per il dizionario De Mauro significa procedere nel cammino (in senso metaforico) «senza doversi vergognare»; «con fierezza»; «con orgoglio». Per il maresciallo dei carabinieri Alfonso Bolognesi, da due settimane tornato in servizio al Comando provinciale di Salerno dopo 14 anni di sospensione dall’Arma, passati per una mezza dozzina di processi, tre anni e mezzo di carcere e sei mesi ai servizi sociali, vuol dire anche di più perché il suo si è rivelato uno di quegli «errori giudiziari» clamorosi, ai quali la magistratura ha posto riparo con una sentenza di revisione solo 13 anni dopo le accuse mossegli. «Camminare a testa alta per me significa riprendersi finalmente la propria vita dopo che gli altri te l’hanno ridotta a brandelli, dopo che hai convissuto per anni con la vergogna di un’accusa ingiusta e infamante, dopo aver perso non solo la stima di te stesso ma anche quella degli amici, dei familiari: perché anche i loro sguardi ho dovuto sfuggire in tutto questo tempo», dice ora il sottufficiale.
A Castel Volturno
Bolognesi, 59 anni, di Pontecagnano Faiano (Salerno), è un uomo mite. Fa tenerezza anche solo a sentirlo, mentre si sforza di trovare le parole giuste, di riavvolgere come meglio possibile il filo di un discorso che parte dal 28 ottobre del 2008. Fino a un mese prima aveva comandato la stazione dei carabinieri di Pinetamare, a Castel Volturno. Vi era stato per undici anni proveniente da Brescia, dove aveva prestato servizio tra capoluogo e provincia per altri 17 anni. È lì che ha conosciuto la ragazza che poi sposerà, è in Lombardia che diventa padre per due volte. Chiese di essere avvicinato a casa sua, nel Salernitano, gli fu data come destinazione il Villaggio Coppola dove arriva nel 1997. «Non volevo andarci in quel posto, dopo poche settimane non volevo più restarci» ricorda il sottufficiale. Il suo era quasi un presagio.
Le accuse
Pur distinguendosi e raccogliendo encomi, come quello per la scoperta del covo dei killer autori della «strage dei migranti» (sei gli immigrati, tutti senza precedenti, uccisi per rappresaglia dal gruppo di fuoco del clan dei casalesi nel 2008), il suo nome venne accostato proprio a quello di Giuseppe Setola, «’o Cecato», il killer che guidava quel commando di fuoco. Per Oreste Spagnuolo, altro super sicario della potente cosca poi pentitosi, il maresciallo era un suo «confidente»: gli passava le notizie, lo copriva. Secondo i giudici le tesi dei pm della Dda partenopea avevano un fondamento. L’intero pool antimafia, Franco Roberti in testa, ne chiese l’arresto. «Mancava solo la firma di Catello Maresca», ricorda oggi Bolognesi, assistito in tutta la sua lunghissima trafila giudiziaria dall’avvocato Raffaele Crisileo.
Il trasferimento e l’arresto
Bolognesi a fine settembre 2008 era già stato trasferito «d’autorità» a Moncalieri. Il 28 ottobre i suoi stessi colleghi bussarono alla porta di casa e lo portarono nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, dove rimase solo 4 giorni perché il gip ritenne eccessiva la misura di carcerazione, ma dove tornò a seguito della condanna a 4 anni di reclusione formulata dalla Cassazione dopo quelle in primo grado ed in appello. L’accusa era quella di corruzione con l’aggravante mafiosa. Scontò 3 anni e 6 mesi dietro le sbarre. «Fu un colpo durissimo per me: da comandante di stazione a detenuto, ero innocente e nessuno mi credette». Ma in quei mesi e anni trovò la forza di andare avanti. «È stato lì che ho conosciuto e frequentato alcune delle persone i cui casi giudiziari riempivano in quel periodo le pagine di cronaca». Bolognesi condivideva momenti con Luigi Spaccarotella, l’agente della Polstrada accusato dell’omicidio dell’ultrà laziale Gabriele Sandri durante uno scontro tra tifosi; con Salvatore Parolisi, il militare accusato di aver ucciso e occultato il corpo della moglie Melania Rea («Ricordo le lettere che riceveva in carcere di altre donne, che lo credevano innocente fino a fargli la corte, e il rosario che recitava la sera nella piccola cappella»); con il generale della Guardia di finanza Emilio Spaziante, comandante in seconda delle Fiamme gialle («Una volta mi disse: tutto quello che di buono hai fatto nella vita ti resterà per sempre»).
Ai servizi sociali
Per buona condotta gli ultimi sei mesi fu affidato ai servizi sociali nella pizzeria-tavola calda del fratello, in un paesino del Cilento. Da maresciallo dei carabinieri a detenuto fino ad operaio. Poi il nulla: senza più un lavoro, privato di ogni forma di reddito fino a due settimane fa. «Ho dovuto vendere la mia casa, mia moglie in tutti questi anni ha fatto la collaboratrice domestica, i miei due figli, Armando ed Alessandra, quasi si vergognavano di me. Anche i giudici sono persone e possono sbagliare ma mi rimbombano ancora nelle orecchie i “si presume” e i “probabilmente” durante i miei processi e tutto questo resterà mer me inaccettabile per sempre», conclude Bolognesi. Al quale ora sarà ricostruita tutta la carriera e gli sarà riconosciuto anche il grado più alto di sottufficiale. A testa alta, anzi altissima.