La strage di Ardea ha portato alla ribalta la spinosa questione della gestione dei pazienti con disturbi psichiatrici: un “nodo” legato a doppio filo con la storia delle “città dei matti”. La Legge Basaglia le ha chiuse tutte, ma buttare la chiave non è bastato: molti problemi sono rimasti irrisolti.
Un uomo affetto da disturbi psichiatrici che, nel caldo pomeriggio di una domenica qualunque, impugna la pistola appartenuta al padre defunto e apre il fuoco in strada, uccidendo due bambini di 5 e 10 anni ed un anziano, prima di rivolgere la medesima arma contro se stesso. Il terribile racconto della strage compiuta ad Ardea, in provincia di Roma, da Andrea Pignani, ingegnere disoccupato che viveva insieme alla madre. Un uomo lasciato solo con i suoi problemi, fino al suo folle gesto, che ha strappato la vita a due bimbi ed un pensionato, colpevoli soltanto di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Un orrore per molti prevedibile, una “tragedia annunciata”, come sottolineato da Vincenzo del Vicario, segretario nazionale del Savip (Sindacato Autonomo Vigilanza Privata), e che poteva essere evitata se il 35enne fosse stato seguito in maniera diversa, soprattutto dopo un Tso (trattamento sanitario obbligatorio. Ndr). Una vicenda che ha sconvolto l’Italia intera e ha riportato alla ribalta la spinosa questione dell’assistenza ai pazienti psichiatrici potenzialmente pericolosi, un problema rimasto “aperto” da quando vennero chiusi i cosiddetti manicomi negli anni ’80. Ma perché in Italia non esistono più queste strutture?
La storia
Per trovare al risposta a questa domanda basta fare un giro sui libri di storia, ma comprendere al meglio la legge (e le motivazioni) che hanno portato alla chiusura di queste strutture, è necessario scoprire come sono nati i manicomi e, soprattutto, come sono stati utilizzati nel corso degli anni. Il termine manicomio deriva dal greco, dall’unione delle parole “manía”. che significa pazzia, e “komêin” che invece vuol dire curare. Curare la pazzia quindi, un proposito benevolo che, nel corso degli anni, ha tramutato queste strutture sanitarie in cui aiutare i pazienti con disturbi mentali, in prigioni per persone sane ma ritenute pericolose per la società, o per senza tetto e sbandati. Luoghi terribili, fatti di sbarre, di filo spinato, di carcerieri e di camicie di forza. E non solo, c’erano anche le cinghie di cuoio e i farmaci, le celle di isolamento e di occultamento, il tutto in strutture fatiscenti in cui venivano confinati, a volte per l’intera esistenza, i cosiddetti ”matti”, persone alienate da allontanare dalla società.
La nascita dei manicomi in Italia è imputabile ad una norma ben precisa: la legge n° 36 del 14 febbraio 1904, dal titolo ”Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati”. All’epoca la norma venne accolta con positività, sia per le condizioni disumane di alcuni ospedali psichiatri sparsi sul territorio italiano, sia per l’aumento dei pazienti, passato dai circa 13mila del 1875 ai quasi 40mila del 1905. La norma venne quindi salutata con soddisfazione, ma uno dei suoi punti nascondeva un ”cavillo”, diventato poi fondamentale nell’economia di questa storia. La legge dava infatti la possibilità alle autorità locali di ordinare il ricovero presso un manicomio di qualsiasi persona, sulla base di due requisiti: una certificazione medica e il presupposto d’urgenza. In poche parole, in presenza di questi due requisiti, chiunque poteva finire nella cella di un manicomio, seppur in maniera provvisoria. Ma quello che doveva essere un’eccezione o uno strappo alla regola, ben presto divenne una spiacevole prassi con cui le forze di polizia potevano intervenire contro i soggetti definiti ”fastidiosi”, senza dover mettere in moto la macchina burocratica prevista dal codice penale.
Così, oltre ai ”pazzi”, in manicomio finivano anche gli alcolizzati, i paralitici, i degenerati e tutti quegli individui che potevano essere ”problematici”, e che invece finivano di dare disturbo dopo nelle fredde celle degli ospedali psichiatrici. Un’anomalia che durante il periodo fascista venne sfruttata ancora di più, diventando un’arma molto efficace per eliminare, in silenzio e senza troppe scartoffie, tutti gli oppositori del regime.
L’utilizzo spropositato della norma diventa evidente guardando i numeri. Dal 1927 il numero delle persone rinchiuse nei manicomi ha fatto registrare un aumento incontrollato: si è passati dai 62.127 internati del 1926 ai 94.946 del 1941. Un incremento che non può essere certo imputato soltanto all’aumento delle persone con disturbi, ma anche all’utilizzo ”speciale” (per modo di dire) della legge. In quegli anni gli ospedali psichiatrici erano a tutti gli effetti delle succursali del carcere, delle alternative facili al sistema giudiziario ed un valido modo per reprimere i nemici politici in maniera silenziosa ed efficace. Il tutto in strutture che, come raccontato da chi lì dentro ci ha vissuto, erano quello che più si avvicina all’idea di inferno: molto peggio di un carcere, con regole rigide dettate dal regime sanitario e terapie ”alternative” come l’elettroshock, dagli effetti devastanti e dai benefici tutt’altro che certi.
La ”fine” dei manicomi e la Legge Basaglia
Neanche con la caduta del Fascismo e il termine della Seconda guerra mondiale gli orrori commessi nei manicomi non ebbero fine, anzi. L’utilizzo ”errato” di queste strutture continuò fino all’inizio degli anni ’80 con la Legge Basaglia, che si tradusse nella chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici sul territorio nazionale. Cosa prevedeva questa norma? La Legge Basaglia è la legge n.180 del 1978, presentata in Parlamento da Bruno Orsini, psichiatra e politico della Democrazia Cristiana. La norma viene associata allo psichiatra veneziano Franco Basaglia, uno dei principali esponenti del movimento che nel maggio del ’78 ottenne l’approvazione della legge.
La norma prevedeva diversi punti, dall’eliminazione del concetto di pericolosità per sé e gli altri come requisito per il Tso, al rispetto dei diritti umani, fino alla chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici. Con la Legge Basaglia l’Italia è diventata il primo Paese al mondo ad affrontare in maniera così drastica la questione, mettendo in atto un processo radicale di de-istituzionalizzazione. Un passo seguito poi anche da altre nazioni, come Regno Unito, Spagna, Portogallo e Grecia, mentre in altri Paesi, come ad esempio quelli dell’Europa dell’Est, il processo di chiusura dei manicomi non è ancora stato avviato.
Eppure, nonostante il modello italiano sia stato ben accolto dall’Europa, che ha consigliato anche agli altri membri dell’Ue di percorrere la medesima strada, la Legge Basaglia e l’attuale sistema utilizzato nel nostro Paese nasconde profonde lacune, figlie di una norma ”tronca e incompiuta”, come più volte è stata definita nel corso degli anni. Infatti, se da un lato la nuova gestione è economicamente più sostenibile e prevede un maggior rispetto dei diritti umani, dall’altro è praticamente assente un piano alternativo per la gestione dei pazienti degli ex manicomi. Una carenza che di fatto abbandona le persone con disturbi psichiatrici nelle mani delle famiglie, che spesso non sono in grado, per competenze mediche o per disponibilità economiche, di gestire e aiutare il paziente in maniera efficace, così da evitare che diventi un pericolo per sé o per gli altri.
La chiusura dei manicomi ha segnato la fine di un orrore durato quasi un secolo, un incubo senza risveglio che per decenni è rimasto lì, in silenzio, sotto gli occhi di tutti. Ma chiudere i cancelli e buttare la chiave non basta, senza delle linee guida e un piano alternativo, avremo soltanto migliaia di persone sole con i loro problemi, che in alcuni si trasformano in atti imprevedibili e folli, come la strage di Ardea.
[sc name=”facebook” ]