Quel giorno che Bianca arrivò per la prima volta a casa e Luca l’abbracciò. Quel giorno, sì, mostra cosa sia l’amore di un papà, molto più che parole e canzoni e poesie. Quel giorno lì Luca e Bianca hanno capito, entrambi, anche se lei era appena nata, che cosa vuole dire esserci sempre. Qui si parla di abbracci e alpini, Afghanistan e missioni di pace, sport paralimpico e amicizie per sempre, amori e scalate. Ci sono gesti piccoli e grandi, momenti belli e dolorosi, cadute e risalite. Come sempre nella vita.
La storia di Luca, che diventa anche quella di Bianca e Sarah, gira il 18 gennaio del 2011. Luca Barisonzi, Croce al Valore dell’esercito, aveva poco più di venti anni: «Da cinque mesi in missione in Afghanistan». Era partito il 10 settembre dell’anno precedente: «Avevo scelto di farlo per i bambini e le persone bisognose di pace». È assieme a Luca Sanna, alpini della 6a Compagnia, 8° reggimento. Sono di guardia in un avamposto a Bala Murghab. Vengono avvicinati da persone in divisa dell’esercito afghano. Hanno solo la divisa dei soldati, in realtà sono terroristi. Sanna muore sotto i loro colpi, lui rimane ferito. Viene portato a Herat prima e in Germania poi. I medici gli dicono: «Muoverai solo la testa». Tetraplegico. Ma è cocciuto: «Come starò dipende anche da me».
Una frase che non ha mai lasciato il suo modo di intendere la vita. Passata anche con Sarah. Si conobbero prima attraverso uno schermo. Lui in Afghanistan, lei in Ohio, negli States. Un’amica della sorella di un marine. Tante parole via chat. Poi Sarah che non lo sente più, legge su Facebook l’incoraggiamento degli amici. Prende un aereo e vola in Italia. Lo trova in ospedale. Straccia il biglietto di ritorno. Si sposano nel 2014, Bianca arriva nella casa domotica di Gravellona Lomellina, nel Pavese, costruita grazie all’aiuto degli alpini, tre anni dopo. In mezzo Luca ci mette una impresa ai limiti del possibile: «Touching the Sky».
Il cielo, insieme con l’alpinista estremo Luca Colli e alcuni amici, lo ha toccato raggiungendo la Capanna Margherita, il rifugio più alto d’Europa, sul Monte Rosa. Mai nessuno con tetraplegia vi era riuscito. Anche la fede a sostenerlo: «Dopo l’incidente mi sono sentito svanito, poi mi sono reso conto che c’è un senso a tutto».
Anni di terapie e riabilitazione, che non finiscono mai. Le braccia recuperano qualche movimento e non c’è più il respiratore: «Il primo accenno l’ho avuto quasi tre mesi dopo il ricovero, all’ospedale Niguarda di Milano: ruotavo la mano. Altri mesi, tanti, per arrivare a prendere un piatto di pasta, muovermi da solo, sollevare qualche oggetto». Gesti semplici e importanti. Come quello di abbracciare Bianca. Normale per un papà. Forse non così tanto per Luca: «Prima di quell’attentato che mi cambiò per sempre la vita avrei risposto che era come mille altri». La visione della vita e di ciò che sta intorno cambia per come siamo: «Quando ti viene detto che non muoverai mai più nulla al di fuori della testa ogni gesto, anche il più insignificante, acquista un valore completamente diverso».
Luca è uno che ci prova. Sempre. Mesi di fisioterapia anche per arrivarci: «Poter stringere Bianca a me significa esserci, poterle comunicare quanto è importante per me e che, a mio modo, ma mettendocela tutta, io ci sarò». Ed ecco quel giorno in cui Sarah torna a casa con Bianca. E quell’abbraccio: «Un altro segno che non mi sono arreso a ciò che sembrava essere il mio destino». Non fu facile l’approccio: «Pensavo che la mia condizione potesse limitarmi. Fu lei a farmi capire che non era così. Con la semplicità di una bimba. Bastava prendere le misure». Oggi è Bianca che quando vuole abbracciare papà si arrampica sulla sua carrozzina: «Come un alpino». La divisa che rimane: «È tutto. Ritrovo la forza pensando a chi era con me e non c’è più. Si è fratelli più che colleghi. Quello che vogliamo è la pace».
Pochi giorni fa, come ogni anno, il ritrovo a casa di Luca dei compagni che hanno vissuto con lui i momenti in Afghanistan: «Abbiamo un rapporto che va oltre l’immaginazione. Sono momenti belli, stiamo bene insieme. Pensando anche a Luca, che è sempre con noi». Alpino lo si è per sempre: «Mi riempie d’orgoglio che per un compito fondamentale per il Paese in questo momento sia stato scelto il generale Figliuolo, uno di noi. Gli alpini e l’esercito sono una grande famiglia».
Come quella del Gruppo Sportivo Paralimpico Difesa, di cui Luca fa parte: «Lo sport è una parte importante, fondamentale della mia vita». Quasi ogni giorno si allena nel tiro a segno, specialità carabina, fra poligono e fisioterapia, ma anche meditazione: «Sono importanti la mente e la concentrazione. Uno sport che mi ha sempre affascinato. Ma lo scatto dell’arma e il rumore mi spaventavano, dopo l’attentato. Volevo superare anche queste paure».
Usa uno speciale congegno per sparare, non riuscendo a farlo con le dita. È già fra i migliori paralimpici in Italia, anche se nella sua categoria ci sono atleti con una condizione migliore della sua. Perché in testa c’è un obiettivo: «Raggiungere la Nazionale». E poi un sogno: «La Paralimpiade. Ma per quella la strada è ancora lunga. Mi ispira un campione come Niccolò Campriani». Il futuro come sempre è un’ipotesi. Luca parla e pensa a quello di Bianca. Rimane solo un pensiero, che è quello di ogni padre, con o senza disabilità: «Vorrei semplicemente fosse felice. Spero che, vedendo come vivo la disabilità, capisca come le difficoltà, quando ci sono, vadano affrontate. Ci sarò sempre, lei lo sa anche ora. Con tutto l’amore che ho da darle, con tutto l’amore che mi può dare».
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