La Giornata della Memoria, quel sacrificio silenzioso di poliziotti e carabinieri

L’ottone lucido brilla sul cemento del marciapiede. Sono tredici le pietre d’inciampo che si incontrano davanti alla Caserma Allievi dei Carabinieri intitolata a Orlando De Tommaso in viale Giulio Cesare a Roma. Difficile passarci sopra con le scarpe. Viene istintivo rispettarle. Si leggono nomi, date, campi di concentramento. «Ricordano gli oltre duemila carabinieri deportati il 7 ottobre del 1943 verso i campi di prigionia nazista in Germania, Austria e Polonia».

Nel Giorno della memoria, che oggi ricordalo sterminio degli ebrei e l’apertura del lager di Auschwitz, il generale Antonino Neosi alla guida dei Beni storici del Comando dei Carabinieri racconta questa storia forse ancora poco nota. Gli Stolpersteine (pietre d’inciampo), progetto dell’artista tedesco Gunter Demnig, portato in Italia dall’Associazione culturale Arteinmemoria, sono ormai oltre 70 mila in tutta Europa.

Qui i sampietrini di bronzo ricordano i carabinieri: alcuni furono uccisi, molti morirono di fame, malattia e maltrattamenti. «Questa deportazione è successiva all’ordine di disarmo che venne data il 6 ottobre del ‘43 dal maresciallo Graziani, ministro della Difesa della Repubblica Sociale – sottolinea Neosi – Lo scopo era quella di disarmare i carabinieri presenti su Roma, che sarebbero potuti essere un ostacolo alla successiva deportazione degli ebrei. Avevano giurato fedeltà al re, non collaboravano con i nazifascisti. Dobbiamo ricordare che prima della deportazione, il 9 settembre del ‘43, all’indomani dell’armistizio, i carabinieri furono tra i primi a combattere contro i tedeschi che stavano avanzando. Proprio nella zona della Magliana ci furono aspri combattimenti dove cadde il capitano Orlando De Tommaso che era partito con un battaglione di giovani allievi proprio da questa caserma».

Una delle storie più commoventi riguarda il tenente Romeo Rodriguez Pereira. «Riuscì a fuggire dalla deportazione nazista di quel 6 ottobre, ma morì alla Fosse Ardeatine. Aveva 25 anni. Scappò dal treno della morte che trascinava i prigionieri verso lo sterminio, e ritornò a Roma. Venne arrestato dai tedeschi e finì nelle prigioni di via Tasso e di Regina Coeli, torturato per giorni. Sarà uno dei dodici carabinieri uccisi la notte del 24 marzo del ‘44 alle Fosse Ardeatine dopo l’attentato di via Rasella».

Ma le pietre d’inciampo ricordano anche gli “angeli” della Polizia di Stato che nelle pagine buie della storia hanno affrontato la follia nazista, proteggendo e aiutando gli ebrei colpiti dalle leggi razziali. E soffrendo, come loro, il destino della deportazione.

Ad Aosta, la pietra d’inciampo davanti alla Questura ricorda il poliziotto partigiano Camillo Renzi. E da oggi i sampietrini d’ottone brillano anche sul marciapiede davanti alla Questura di Trieste per celebrare la figura di Giovanni Palatucci e del suo collaboratore Feliciano Ricciardelli. Commissario della Questura di Fiume, Palatucci giunse nel novembre 1937 a capo dell’Ufficio stranieri, dove cercò di aiutare gli ebrei stranieri che fuggivano dai territori soggetti ai tedeschi e chiedevano di poter entrare in Italia. Riuscì a salvare tante vite agevolando il rilascio di documenti e in alcuni casi falsificandoli. Sono le famose “liste di Palatucci”, per cui è considerato lo Schindler italiano. Il suo ruolo fu strategico dopo l’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940: si inasprirono i divieti d’ingresso per gli ebrei stranieri, su cui pendeva l’ordine di internamento. Dall’estate del ‘41 al ‘44, Palatucci operò con l’aiuto di personalità ecclesiastiche, di civili della Croce Rossa, di figure della Resistenza, per salvare gli ebrei in fuga dalle persecuzioni. Venne rinchiuso nel carcere Coroneo di Trieste e poi deportato a Dachau il 22 ottobre del ‘44. Morirà quattro mesi dopo, per un’epidemia di tifo.

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