Per Giovanni Falcone la collaborazione con la giustizia era “la strada giusta per portare a soluzione problemi di grande interesse nella strategia complessiva della lotta alla criminalità organizzata”.
Le polemiche, sterili, spesso immotivate giuridicamente, sulla scarcerazione di Giovanni Brusca rischiano di generare un clima certamente non favorevole per un dibattito approfondito e soprattutto serio sul tema centrale dei collaboratori di giustizia nella lotta alle nuove mafie.
Secondo Falcone i collaboratori di giustizia erano – e sono, aggiungo io – uno strumento investigativo indispensabile non tanto nell’interesse del beneficiario quanto piuttosto nell’interesse superiore della collettività. Scrive nel suo intervento:
“Le istruttorie tuttora in corso in diverse sedi giudiziarie stanno portando alla luce realtà estremamente inquietanti e particolarmente complesse, fatte di ibridi connubi fra criminalità organizzata, centri di poteri extraistituzionali e settori devianti dello Stato, che hanno la responsabilità di avere tentato ad un certo punto perfino di condizionare il libero svolgimento della democrazia e di avere ispirato crimini efferati”.
Soltanto, infatti, quando lo Stato nel suo complesso dimostra di voler combattere concretamente le mafie e appare credibile anche agli occhi della stessa criminalità organizzata, ci potranno essere dissociazione e collaborazione degli imputati con la giustizia, che, ricordiamolo, in passato hanno infranto l’inespugnabile muro dell’omertà e del silenzio, tra i principali ostacoli per il raggiungimento di risultati apprezzabili nella lotta alle organizzazioni mafiose.
Per Giovanni Falcone il fenomeno del pentitismo aveva ragioni precise e non erano affatto di scarsa rilevanza processuale. Non dobbiamo dimenticare che il pentito riferirà espressamente e in atti processuali quanto a sua conoscenza sul mondo del crimine organizzato di cui è parte. Le sue confessioni e chiamate in correità devono sostenere il vaglio del giudizio, come qualsiasi altro mezzo di prova. Basta riflettere su questi aspetti per comprendere l’importanza di questo strumento investigativo.
Aggiunge Giovanni Falcone:
“Il pentito ben difficilmente potrà mai rientrare, per intuitive ragioni, nel circuito della criminalità, e cioè nello stesso ambiente di cui fanno parte i soggetti di cui ha denunciato, in modo eclatante, i misfatti. È da escludere, quindi, a mio parere, l’esistenza di un concreto pericolo che la legislazione premiale costituisca incentivazione della pericolosità sociale dei soggetti che hanno collaborato con la giustizia”.
“Per quanto mi riguarda, aggiunge il magistrato palermitano più famoso al mondo, debbo esprimere il mio avviso favorevole alla introduzione di una legislazione premiale che sancisca, a determinate condizioni, specifici benefici, in termini di pena e di altri effetti processuali, a favore di chi collabora con la giustizia”.
In queste frasi c’è il Giovanni Falcone favorevole alla concessione dei benefici penitenziari a chi collabora con la giustizia, mentre, emerge chiaramente la sua contrarietà alla concessione di tali benefici per chi invece non collabora con lo Stato. In materia credo vi sia anche un altro aspetto che meriti approfondimento: i rapporti tra collaboratori di giustizia e professionalità di polizia e di magistratura. La formazione continua è più che mai necessaria in tema di lotta alla criminalità organizzata. Non sono i collaboratori di giustizia a fuorviare le indagini, ma chi indaga a non essere in grado di individuare l’eventuale imbroglio. La dichiarazione del “pentito” è solo uno dei tanti mezzi investigativi a disposizione del magistrato inquirente. L’esito positivo di un’indagine giudiziaria dipende dall’uso sapiente dei mezzi più appropriati, per cui le ammissioni e le chiamate in correità devono costituire orientativamente conferma di risultati probatori acquisiti da altra persona o spunto per eventuali successive indagini.
Per Falcone ostacolare il fenomeno del pentitismo era allora un errore di portata storica. A maggior ragione ritengo lo sia anche oggi. È necessario che si discuta approfonditamente e serenamente sulle eventuali norme più idonee ad assicurare che le propalazioni dei “pentiti” siano assunte nel rigoroso rispetto della legalità democratica e del diritto di difesa. Si accerti pure col maggiore scrupolo possibile quali possono essere i benefici più opportuni a favore dei “pentiti”, non in contrasto col principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale.
“Mi sembrerebbe tuttavia assurdo che, in virtù di malintesi principi garantistici, si dovesse rinunziare allo strumento del pentitismo che, sia pure tra luci e ombre, ha consentito finalmente una chiave di lettura dall’interno della criminalità organizzata, aprendo importanti brecce nel muro dell’omertà, finora ritenuto impenetrabile”.
Di fronte a fenomeni delinquenziali tuttora in atto, non è certo l’inasprimento delle pene – illusorio, e quasi mai seguito dalla pratica giudiziaria – che consentirà la soluzione dei problemi, ma solo una saggia politica criminale che sappia armonizzare il rispetto dei principi costituzionali in tema di pena e di uguaglianza con quello, irrinunciabile, della difesa sociale.
Attenzione a scardinare la legge sui collaboratori di giustizia che si è rivelata uno strumento fondamentale nella lotta alle mafie. Giovanni Falcone conosceva l’efficacia delle collaborazioni di alcuni esponenti di vertice di Cosa Nostra. La sua legge ha funzionato in passato e funziona ancora oggi. Pur comprendendo l’immensa sofferenza di chi ha visto i propri familiari uccisi barbaramente, la legislazione sui collaboratori di giustizia resta, in questo preciso momento storico, ancora uno strumento investigativo irrinunciabile.
Le frasi in corsivo sono estratte dall’intervento di Giovanni Falcone in Atti del Convegno di studio “La legislazione premiale” in ricordo di Pietro Nuvolone svoltosi a Courmayeur, 18-20 aprile 1986. Collana n. 15 – Convegni di studio “Enrico de Nicola” – Problemi attuali di diritto e procedura penale – Giuffrè editore – Milano 1987 – pp. 336 e ss.
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