Il 3 settembre si celebra l’anniversario della strage di Via Isidoro Carini, teatro del barbaro martirio per mano mafiosa del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, Prefetto di Palermo, di sua moglie, Elisabetta Setti Carraro, e della guardia scelta della Polizia di Stato Domenico Russo, che seguiva l’A112 guidata dalla giovane signora.
Si è detto e scritto tanto su quel tragico evento, che eliminò, assieme ad altre due vittime – una del dovere, l’altra dell’amore – chi era stato capace di sconfiggere il terrorismo brigatista. Con metodi, secondo alcuni, sicuramente da emergenza nazionale. Ma che non ha avuto lo stesso tempo, gli stessi mezzi e la stessa fortuna per affrontare un altro non meno pericoloso pericolo per il Paese: quello della Mafia.
Il Generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa è stato un uomo d’azione, che ha servito il Paese negli anni più tragici del dopoguerra, caratterizzati dall’offensiva terroristica e dagli attacchi della Mafia e pieno di un’emergenza democratica cadde al suo posto di combattimento.
Dopo aver sconfitto le Brigate Rosse, venne spedito nella primavera del 1982 a Palermo, insanguinata dai morti ammazzati nella guerra tra cosche e dall’omicidio del segretario regionale del Partito comunista italiano, Pio La Torre, ucciso insieme all’autista-guardia del corpo Lenin Mancuso il 30 aprile, alla vigilia della festa dei lavoratori.
Un delitto mafioso, politico e simbolico anche per la data in cui fu consumato, che spinse il governo ad anticipare l’invio del generale appena nominato prefetto nella “città dei mille morti”, come risposta e segno di riscossa. Ad un simbolo abbattuto si reagì innalzandone un altro; abbattuto anche quello, poco dopo.
Solo a seguito dell’omicidio La Torre, la legge che porta il suo nome fu approvata dal Parlamento, mettendo a disposizione dei magistrati il reato di associazione mafiosa e nuovi strumenti per colpire i patrimoni dei boss; ma ci vollero il sacrificio del leader e – cento giorni più tardi – quello di dalla Chiesa, assassinato la sera del 3 settembre insieme alla giovane moglie Emanuela (sposata nemmeno due mesi prima, il 10 luglio) e all’agente di scorta Domenico Russo.
Una strage che determinò, in pochi giorni, il varo della legge Rognoni-La Torre che ancora oggi si applica pressoché quotidianamente nei tribunali di tutta Italia e non più solo in Sicilia.
Il Generale fu eliminato prima ancora di avere il tempo di affrontare l’emergenza mafiosa per cui era stato richiamato in servizio, seppure con una carica (quella di Prefetto) più adatta a cerimonie e tagli di nastri che a interventi concreti; ma a lui avevano promesso nuovi poteri, che tardarono ad arrivare (e non arrivarono). Tuttavia era logico aspettarsi che dalla Chiesa avrebbe trasformato quell’incarico in qualcosa di diverso e più incisivo, e per questo gli impedirono di cominciare a lavorare. Un delitto preventivo.
Comprese le caratteristiche della nuova mafia che avrebbe dovuto fronteggiare, quella dei corleonesi guidati da Totò Riina, grazie all’interpretazione degli omicidi commessi durante i cento giorni e alla lettura del famoso rapporto contro “Michele Greco + 160”, firmato dal capo della squadra mobile Ninni Cassarà, che fu la base del maxi-processo. Ed ebbe il tempo di denunciare, nella famosa intervista-testamento rilasciata in agosto a Giorgio Bocca, i contorni di un fenomeno che non s’era rinnovato solo perché aveva sostituto i kalashnikov alle lupare, ma soprattutto grazie alle collusioni e alleanze nel mondo imprenditoriale, oltre che politico. Un messaggio chiaro per i boss e i loro complici, che non potevano aspettarsi nulla di buono dal generale-prefetto.
Aveva capito, Carlo Alberto dalla Chiesa, che l’emergenza mafiosa era molto più grave è complicata rispetto a quella del terrorismo che aveva già combattuto e vinto, seppure osteggiato e ricacciato indietro dopo i primi successi. Solo all’indomani del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro lo Stato decise di affrontare seriamente il problema, e fu in grado di risolverlo anche grazie al lavoro e alle strategie del generale.
Contro la Mafia il generale Dalla Chiesa immaginava di poter seguire la stessa strada, ma purtroppo dovette fare i conti con una differenza fondamentale.
Mentre i terroristi erano schierati frontalmente contro le istituzioni, e dunque lo Stato unitariamente a un certo punto decise di fronteggiarli e sconfiggerli, i mafiosi avevano collegamenti e alleanze dentro le istituzioni, e non sarebbero bastati i proclami ufficiali e la sagacia investigativa di un carabiniere e qualche magistrato a toglierli di mezzo.
Il generale nominato prefetto lo intuì, e solo per questo divenne un pericolo, un ostacolo da rimuovere prima ancora che potesse entrare in azione.
Con la sua morte dalla Chiesa è diventato un simbolo ancor più sia significativo. Per i “siciliani onesti” che dopo l’omicidio videro perdere la speranza, come scrisse una mano anonima sul cartello che comparse in via Carini, il luogo della strage; e per quella parte di istituzioni che non voleva convivere con la mafia, bensì liberarsene.