Novità sul caso Shalabayeva. Mukhtar Ablyazov, il kazako che nel 2013 si era rifugiato in Italia spacciandosi per un rifugiato politico, era un criminale ricercato per reati comuni.
E nella casa alla periferia di Roma dove venne trovata sua moglie Alba Shalabayeva non c’erano i documenti classici di un esule politico ma l’armamentario di un latitante.
A dirlo non sono i difensori di Renato Cortese e Maurizio Improta, gli alti funzionari di polizia condannati per sequestro di persona ai danni della Shalabayeva, ma il ministero dell’Interno di Luciana Lamorgese, che rispondendo all’interrogazione di alcuni esponenti grillini ha documentato la situazione che portò all’arresto della donna e alla sua estradizione. Un documento che peserà sul processo d’appello ai due funzionari.
Nell’ottobre scorso, all’indomani della condanna di primo grado, l’allora capo della polizia Franco Gabrielli dovette sollevare Cortese e Improta dagli incarichi di questore di Palermo e di capo della Polizia ferroviaria, ma lo fece a malincuore, ribadendo la stima nei colleghi e la fiducia nella loro innocenza; Cortese uscì dalla questura di Palermo tra due ali di poliziotti che lo applaudivano. Eppure nelle motivazioni della sentenza, depositate in gennaio, i giudici perugini usarono parole di fuoco contro gli imputati, che arrestando la Shalabayeva e consegnandola al suo Paese avrebbero compiuto un crimine «di lesa umanità mediate deportazione».
[sc name=”pubblicit” ][/sc]Ora il Viminale ricapitola per filo e per segno la vicenda, ed è una ricostruzione assai diversa da quella compiuta dai giudici. Nel documento si ricorda che Ablyazov si trovava in Italia senza alcun permesso di soggiorno e si era ben guardato dal presentare alcuna richiesta di asilo politico; l’ordine di cattura dell’Interpol era basato sulle richieste di tre Paesi (Kazakhistan, Russia e Ucraina) ed era basato su truffe di importi rilevanti, appropriazione indebita di 3,2 miliardi di dollari e 4 miliardi di rubli, nonché su associazione a delinquere.
Quando, il 29 maggio 2013, il personale della questura di Roma era entrato nella villa di Casalpalocco dove il latitante era segnalato, Ablyazov era già sparito: ma c’era sua moglie, in possesso di un passaporto centrafricano falso con indicato uno stato diplomatico altrettanto falso. Pochi giorni dopo, con una nuova perquisizione, venivano trovati un rilevatore Gps, una microspia israeliana e cinquantamila euro in contanti. Interpellato dalla Mobile di Roma, il ministero degli Esteri riferì che la Shalabayeva non godeva di alcuna tutela diplomatica.
Ed era impossibile sapere che la Gran Bretagna aveva intanto concesso asilo a Ablyazov: «per qualsiasi Paese membro che si fosse trovato a consultare le banche dati, era un soggetto ricercato da tre Paesi membri dell’Interpol per reati gravi».