“Era come il paese dei balocchi: la notte di Capodanno c’era più droga nel carcere di Biella che a Porta Palazzo”, osserva uno dei detenuti che ha collaborato con gli inquirenti coordinati dalla procuratrice di Biella Teresa Angela Camelio all’inchiesta sul traffico di sostanze stupefacenti, anabolizzanti, smartphone e microtelefoni culminata con 56 indagati, 53 misure cautelari eseguite martedì in 21 province d’Italia, dalla Sicilia alla Val D’Aosta, delle quali 33 in carcere per altrettanti detenuti, 9 loro famigliari ai arresti domiciliari, oltre a sei agenti della polizia penitenziaria indagati , tre finiti agli arresti domiciliari, tre destinatari della misura di sospensione dall’esercizio della professione.
L’inchiesta portata a termine dagli investigatori della squadra Mobile di Biella ha sgominato un sistema articolato di spaccio all’interno della casa circondariale nella quale il 90 per cento dei 320 detenuti è tossicodipendente, solo 15 per cento era già in carico ai servizi sociali prima di entrare in cella.
Uno scenario allarmante, figlio dell’attività capillare di spaccio organizzata da alcuni detenuti che con la compiacenza delle guardie carcerarie erano in grado di introdurre all’interno del penitenziario 200 pasticche di Subutex a settimana (un farmaco utilizzato per curare la dipendenza da oppioidi), un chilo e mezzo di hashish da rivendere a 60 euro al grammo, un prezzo dieci volte superiore rispetto a quello della strada. E poi gli Smartphone di ultima generazione, in vendita a 1500 euro l’uno, i microtelefoni sul mercato a 500 euro l’uno.
Le tariffe stabilite dai capi dello spaccio per “i cavalli blu”, come erano soprannominate in gergo glo agenti di Polizia penitenziaria, si aggiravano tra i 600 e i 1500 euro a pacco in base al tipo di droga.
Perché nelle sezioni del carcere di Biella si trovava tutto: eroina, cocaina, crack, hashish, marijuana, Subutex e anabolizzanti.
Ogni piazza di spaccio, governata da un capo diverso, all’interno di una specifica sezione vendeva solo un tipo di droga. Una spartizione capillare del territorio e delle sostanze, resa possibile non solo dagli agenti compiacenti, ma anche grazie alla partecipazione dei detenuti che avevano più libertà di movimento all’interno della prigione.
La droga e i cellulari entravano nascosti nei pacchi postali con mittente fittizio, attraverso i lanci dal muro di cinta, venivano portati dai familiari al colloquio oppure entravano con l’ausilio della polizia penitenziaria.
I capi dello spaccio si avvalevano anche della collaborazione dei detenuti in permesso esterno, minacciandoli e tenendoli sotto scacco: vittime di estorsioni hanno inviato delle lettere anonime in procura decidendo di collaborare con gli investigatori della Mobile di Biella diretti da Giovanni Buda.
L’inchiesta, prosecuzione di un primo filone che aveva in carcere un agente della penitenziaria, è decollata grazie a una perquisizione eseguita il 28 aprile 2021 e solo apparentemente dagli esiti fallimentari. Gli investigatori coordinati dalle sostitute procuratrici Paola Francesca Ranieri e Sarah Cacciaguerra, hanno scoperto successivamente che gli agenti della polizia penitenziaria avevano avvisato i detenuti quattro giorni prima, consentendo loro di nascondere i panetti di hashish e i telefoni nell’intercapedine tra la parete e gli armadietti.
Nel dicembre del 2019 gli agenti hanno scoperto che gli smartphone entravano camuffati nelle confezioni di cioccolato, i microtelefoni nell’involucro dei torroncini. La droga era in vendita a ogni ora del giorno, ogni sezione la sua sostanza.
Così l’indice di tossicodipendenza all’interno della popolazione detenuta ha raggiunto picchi del 90 per cento. Secondo il detto che ricorreva tra i detenuti secondo il quale “se la droga non la trovi fuori, la puoi trovare nel carcere di Biella”.
Sono anni che il carcere biellese è al centro dell’attenzione della magistratura. A marzo erano stati sospesi dal servizio 23 agenti in esecuzione di un’ordinanza del gip per il reato di tortura di Stato, commesso all’interno del carcere nei confronti di tre detenuti. Uno solo aveva denunciato.
Qualche mese dopo, a giugno, il tribunale del Riesame aveva tuttavia cambiato posizione e dato un’interpretazione diversa del reato da configurare per quegli episodi: non tortura ma “abuso di autorità”, per quei metodi “anacronistici, rudimentali e spicci” per mantenere l’ordine, che tuttavia – secondo l’analisi del giudice – dovrebbero ricevere un “un trattamento sanzionatorio più severo” rispetto a quello previsto dal codice.
In passato la casa circondariale era stata anche travolta dallo scandalo dei 51 indagati per aver approfittato di una corsia preferenziale per l’esecuzione dei tamponi anti Covid durante le fasi più acute della pandemia.