Mercoledì un operaio si è barricato con la figlia di cinque anni nella sua casa a Mansuè, nel Trevigiano. La tensione era altissima. «Non accettava la separazione dalla moglie, era disperato» racconta il carabiniere che ha condotto la trattativa con quell’uomo. «Ci ho parlato per quattro ore per convincerlo a lasciare andare la bambina, che in fondo ama profondamente. Ho subito capito che non era una persona cattiva, ma solo arrabbiata. In un secondo momento, quando si è calmato, ho potuto persuaderlo a uscire e arrendersi».
Quella mattinata di follia si è conclusa così, con la piccola tra le braccia della madre e l’operaio che ha accettato di lasciarsi accompagnare in ospedale.
Protagonista dell’intervento, un maresciallo di 46 anni («Il nome non lo scriva, nel mio lavoro è meglio non essere riconoscibili») in servizio al Nucleo investigativo di Treviso con un incarico molto particolare: fare da negoziatore.
In tutto il Veneto quelli come lui si contano sulle dita di una mano.
È addestrato a convincere le persone a desistere da ciò che stanno facendo per consegnarsi alle forze dell’ordine, che si tratti di banditi asserragliati in una banca o aspiranti suicidi sul filo del baratro.
Come si diventa negoziatori?
«È su base volontaria, ed è un impegno piuttosto gravoso perché si vive col telefonino sempre acceso, pronti a partire in qualunque momento.
Si frequenta un corso di tre settimane con gli istruttori del Gis (Gruppo di intervento speciale) dei carabinieri: molta teoria ma, soprattutto, moltissime simulazioni pratiche. È molto selettivo: quando è toccato a me, nel 2017, eravamo una ventina di aspiranti negoziatori e abbiamo superato il corso in otto. Poi, ovviamente, ci sono continue lezioni di aggiornamento».
Cosa fa la differenza?
«La capacità di entrare in empatia con le persone. Certo, si imparano delle tecniche di comunicazione, dei metodi di approccio. Ma c’è una buona componente di predisposizione caratteriale. Poi ognuno ha le proprie motivazioni che lo spingono a migliorare, intervento dopo intervento».
E lei, perché ha deciso di fare il negoziatore?
«È una ferita che mi porto dentro, non mi va di parlarne. Posso dirle che un giorno entrai in una stanza, uno dei miei migliori amici era disteso a terra, morto. Si era suicidato. Nei mesi successivi sono stato accanto a sua moglie e ai suoi bambini e intanto, mentre elaboravo ciò che era accaduto, ho iniziato a domandarmi se potevo fare qualcosa per risparmiare quel dolore ad altre famiglie».
C’è riuscito.
«Ci provo tutti giorni».
Quanti interventi ha portato a termine?
«Dal 2017 ho affrontato sedici interventi tra le province di Treviso, Venezia e Belluno. In buona parte si trattava di aspiranti suicidi e devo dire che finora si sono sempre conclusi nel migliore dei modi».
Non ha mai fallito?
«La negoziazione non fallisce mai, per un motivo molto semplice: non è l’ultima spiaggia ma, al contrario, è la prima opzione. Questo significa che, se anche la persona non si arrende, si può sempre guadagnare tempo per consentire ai colleghi un’azione di forza o un blitz».
Qual è il suo equipaggiamento?
«Sta in uno zainetto che ho sempre a portata di mano. Dentro c’è un po’ di tutto: un impermeabile, una merendina e una bottiglietta d’acqua da offrire alla controparte, se il negoziato va per le lunghe. E un pacchetto di sigarette, perché anche se non fumo sono sempre una buona scusa per allentare la tensione. Inoltre evito di indossare divisa o abiti eleganti, che possono intimorire la persona con cui sto parlando».
Come si porta avanti una negoziazione?
«Ci sono delle regole. La prima è: mai mentire. Perché se l’altro scopre che hai detto una bugia, e può capitare di contraddirsi in un dialogo che si trascina anche per dieci ore di fila, allora perderà la fiducia. E poi c’è la “legge del 70 per cento”: trenta parlo io e settanta lui. Le persone in difficoltà vogliono trovare qualcuno che le ascolti e che capisca i loro problemi senza sentirsi giudicati. Io non giudico mai. Con l’esperienza ho capito che potrebbe capitare a chiunque di perdere il controllo e fare una sciocchezza. A volte la colpa è solo dello stress unito alla sfortuna di trovarsi nel contesto sbagliato».
Quando capisce che la negoziazione sta per sortire i suoi effetti?
«Il linguaggio del corpo raramente risulta utile: spesso non vedo in faccia le persone con le quali sto negoziando perché sono barricate in un edificio o mi danno le spalle magari nell’intenzione di lanciarsi nel vuoto. Lo capisco dalle piccole concessioni che mi fanno: aprono leggermente la porta per sentire meglio ciò che sto dicendo, oppure rispondono alle mie domande. Significa che cominciano a fidarsi di me. Per convincerli a instaurare un dialogo, ogni espediente è utile: gli racconto della mia vita privata, di mia figlia che ha vent’anni. Una volta, con un uomo armato che si era rintanato in casa, ho parlato del suo cane».
Nel suo lavoro, l’adrenalina scorre a fiumi.
«C’è molto stress, ma riesco a gestirlo. Entri in contatto con persone che ti raccontano esperienze orribili, traumi che non augureresti al tuo peggior nemico. E allora la cosa più complicata è stata di imparare a rimuovere dalla testa il dolore che quando se lì, per empatia, inevitabilmente ti ferisce. Lo faccio nel momento stesso in cui mi tolgo lo zaino per tornare a casa».
La situazione più brutta?
«L’intervento dello scorso anno, quando una madre minacciava di lanciarsi da un ponte in Cadore. Ne parlarono tutti i giornali. Quando arrivai lì non potei che lavorare in team: sul posto c’era già una carabiniera di 26 anni che aveva instaurato un dialogo con la donna. Interromperla e sostituirmi a lei sarebbe stato controproducente e quindi scelsi di lasciarla continuare.
Fu una decisione difficile perché sapevo che, se si fosse suicidata, avrebbe significato condannare la collega ad affrontare quel peso per tutta la vita. Per fortuna lei fu bravissima e andò tutto bene».
La più bella?
«Una signora barricata in casa, minacciava di farla finita. Quando finalmente è uscita mi ha abbracciato e mi ha detto: “Non pensavo che i carabinieri fossero così sensibili».