Carabiniere travolto e ucciso. L’investitore chiede l’affidamento in prova. La figlia dell’appuntato: «Legge sbagliata»

carabiniere emanuele Anzini
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Emanuele Anzini trascorse tante estati a Poggio Filippo. Frazione di Tagliacozzo, in Abruzzo, è il paese dei genitori Eugenio, carabiniere morto 30 anni fa, ed Eleonora, che ha 76 anni. Quest’estate gli è stata intitolata la piazza come volevano gli amici della Pro loco che si sono mobilitati parecchio.

Corona di alloro, mega foto di lui sorridente accanto ad una Gazzella, bandiere tricolore, carabinieri in alta uniforme. La figlia Sara, la sorella Catia, la mamma, discorsi e commozione. La frazione è piccola, saranno 150 abitanti, ma lì hanno voluto fare le cose in grande.

Emanuele Anzini era un appuntato scelto dei carabinieri originario di Sulmona e lavorava al Radiomobile di Zogno, ogni volta che poteva tornava dove la famiglia d’estate si riunisce. Ha perso la vita il 17 giugno 2019, a 41 anni, 22 da carabiniere, a un posto di controllo in via Padre Albisetti, a Terno d’Isola.

Sono le 3 di notte quando intima l’alt all’Audi A3 guidata da Matteo Colombi Manzi, aiuto cuoco di Sotto il Monte, che oggi ha 37 anni. L’automobilista tenta un «repentino scarto», dirà il consulente del pm, ma centra Anzini, lo scaraventa a 50 metri e tira dritto, per tornare indietro più tardi.

Aveva bevuto quasi cinque volte sopra il limite e, dirà al giudice, si era distratto con il telefonino. Anzini muore: omicidio stradale aggravato dalla guida in stato di ebbrezza e omissione di soccorso. Il 14 febbraio 2020, Colombi Manzi viene condannato a 9 anni; in appello, il 13 aprile 2021 diventano 6 anni, 2 mesi e 20 giorni patteggiati.

La sentenza è diventata esecutiva, significa che va scontata, ma l’esecuzione è sospesa e, salvo sgarri con il programma, Colombi Manzi non dovrebbe andare in carcere. Glielo consente la legge. Con un pre sofferto di 3 mesi e 22 giorni, tra cella e domiciliari, la pena da espiare resta sotto i 6 anni e può scontarla con l’affidamento in prova (speciale) ai servizi sociali. 

Per chi, come lui, ha un problema di dipendenza il limite di 4 anni per saldare il conto con la giustizia in una forma alternativa al carcere sale di due. Con l’avvocato Federico Riva è in attesa che il tribunale di sorveglianza fissi l’udienza per decidere. Intanto, segue un percorso al Sert, lavora in un’azienda ed è diventato papà.

Ha risarcito la famiglia del carabiniere, l’associazione Familiari vittime della strada e l’associazione Sostenitori e amici della polizia stradale, parti civili.

L’Arma non si era costituita, su scelta della Presidenza del consiglio dei ministri dietro parere dell’Avvocatura. Ma l’allora comandante provinciale dei carabinieri Paolo Storoni aveva voluto esserci e, fuori dal tribunale, il giorno dell’udienza si era intrattenuto a lungo con Sara. Lei sta studiando all’Università, la triennale di Scienze della comunicazione, spera di laurearsi a breve per poi iniziare la magistrale. «Se voglio ancora entrare nei carabinieri? Certo, la divisa sarà un modo per avere papà più vicino, anche se non alleggerirà il dolore».

La sentenza. Silenzio, Sara singhiozza. Per chi non sta quotidianamente tra i fascicoli e ha perso una persona cara per un reato commesso da altri, non è semplice capire che la giustizia conceda alternative al carcere: «Il problema è di chi glielo permette, non suo.

È la legge che non va». Il tono dolce della figlia che ricorda l’intitolazione della piazza al papà cede il posto a quello duro di chi non concede aperture: «Il perdono lo può dare Dio. Io non potrò mai. Non è stato un incidente. Si dice che il tempo allevi le ferite. Non è vero».

«L’amore degli amici di Poggio Filippo ci aiuta a portare il nostro fardello — dice zia Catia, sorella del carabiniere —. Perdonare? A scuola avevo una compagna a cui uccisero il padre. Disse che aveva perdonato chi sparò. Io per ora non ci riesco».

Non è rimasta indifferente alle parole di Colombi Manzi, in aula a Bergamo: «Non mi perdonerò mai, spero che un giorno possano farlo i parenti», disse l’imputato. Ma lei ha la sua quotidianità di dolore: «So io che cosa vuol dire portare mia madre al cimitero e vederla soffrire, e vedere la sofferenza di Sara.

Non abbiamo più Lele, a noi la vita è cambiata davvero. Invece mi chiedo quanto davvero sia cambiata la vita a questo ragazzo, che comunque sta a casa sua. Gli incidenti capitano, ma lui si è messo in auto sapendo di non essere nelle condizioni di guidare».

bergamo.corriere.it

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