Candidata poliziotta «non idonea» per un tatuaggio (rimosso): “le calze dell’uniforme non ne limitano la visibilità”

Candidata poliziotta «non idonea» per un tatuaggio

«Non idonea». Sono queste le parole che si è sentita dire una una candidata al concorso per Commissario di Polizia. Il motivo? La presenza di un «tatuaggio» in una zona del corpo non coperta dall’uniforme. A giudicare la non idoneità è stata la Commissione medica del Ministero dell’Interno (articolo 3, comma 2, del Dm n. 198 del 2003).

Nonostante la tenacia della donna che ha percorso tutti i gradi di giudizio, le Sezioni unite (ordinanza n. 8676 depositata oggi), interpellate per giudicare sul dedotto eccesso di potere giurisdizionale del Consiglio di Stato, hanno chiuso definitivamente la vicenda dichiarando inammissibile il ricorso dell’aspirante poliziotta.

Cosa è successo

La donna aveva presentato ricorso contro l’inidoneità, sostenendo che si trattava non di un tatuaggio in senso stretto ma di un mero residuo cicatriziale, irrilevante anche perché coperto dalle calze dell’uniforme. Il Tar le aveva dato ragione affermando che l’Amministrazione non può procedere all’automatica esclusione per la sola presenza di un tatuaggio in una zona del corpo non coperta dall’uniforme, bensì deve specificamente motivare in che misura la visibilità è tale da determinare l’inidoneità al servizio.

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Successivamente il Consiglio di Stato, accogliendo il ricorso del Ministero dell’Interno, ha ribaltato il giudizio affermando che non ha rilievo il fatto che il tatuaggio sia stato completamente rimosso in un momento successivo all’accertamento concorsuale, perché i requisiti di idoneità devono essere posseduti entro la data di partecipazione pena la violazione della par condicio tra i concorrenti.

Mentre la circostanza per cui il tatuaggio fosse già allora in avanzato stato di rimozione sarebbe smentita dal verbale della seduta della commissione medica, la quale ha fatto riferimento alla documentazione fotografica, da cui è evidente la presenza del tatuaggio ancora percepibile nelle sue dimensioni complessive e nel soggetto raffigurato.

A questo punto, la ricorrente si è rivolta nuovamente al Cds chiedendo la revocazione della sentenza per errore di fatto, determinato, a suo avviso, dalla mancata considerazione della non visibilità del tatuaggio. I giudici però hanno dichiarato il ricorso inammissibile, escludendo la configurabilità dell’ipotesi di errore di fatto perché la visibilità dei residui del tatuaggio aveva costituito il punto controverso, e «centrale», sul quale la sentenza d’appello aveva avuto modo di esprimersi.

Non ancora soddisfatta la donna ha proposto ricorso alle Sezioni unite per eccesso di potere giurisdizionale (per sconfinamento nel potere della pubblica amministrazione). Per le S.U. tuttavia non è configurabile alcuno sconfinamento da parte del Consiglio di Stato, che si è limitato a rilevare come non fosse configurabile un errore di fatto revocatorio. L’interpretazione del Consiglio di Stato relativa alle parti del corpo che devono essere considerate coperte in senso fisico da capi di abbigliamento, in virtù della quale non è stata attribuita valenza «coprente» alle calze della divisa, costituisce, infatti, un’attività ermeneutica che rappresenta il proprium dell’attività giurisdizionale, potendosi, al più, configurare un error in iudicando, come tale non censurabile innanzi alle Sezioni Unite.

Inoltre, il Collegio si dice consapevole del fatto che le disposizioni limitative in materia di tatuaggi «coinvolgono il tema delle libertà costituzionali, in particolare della libertà di espressione, e che, proprio per questo, il giudice deve evitare, nel momento interpretativo, letture restrittive della normativa regolamentare che si risolvano in un esito discriminatorio per le donne che intendono accedere in Polizia di Stato, tenuto conto della diversa uniforme femminile che, in alcuni casi, non copre in modo identico ai pantaloni».

ilmattino.it

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