Sotto la Polizia Penitenziaria, in mezzo i Direttori delle carceri e, ai vertici, un Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) guidato da un magistrato nominato dal ministro di Giustizia, ma scelto dopo i consueti patteggiamenti tra le correnti «padrone» del Consiglio Superiore della Magistratura. Insomma il solito caos di una giustizia manovrata dalle correnti di sinistra che finisce, inevitabilmente, con il riverberarsi sul malfunzionamento degli istituti carcerari.
Un caos di cui, alla fine, fanno le spese gli anelli più deboli ovvero detenuti e agenti di Polizia Penitenziaria. «I fatti di Santa Maria Capua Vetere sono l’esatta replica di quanto verificatosi nel 2000 a Sassari, ma se nulla è cambiato il problema è l’inadempienza di un Dap che in vent’anni non ha saputo nemmeno darci dei protocolli operativi», spiega al Giornale Daniela Caputo, segretario di DirPolPen, il sindacato dei funzionari di Polizia Penitenziaria. Ma il pesce puzza sempre dalla testa. E la testa del Dap, ovvero il suo capo, è sempre un magistrato nominato ufficialmente dal Guardasigilli di turno, ma «indicato» in verità dopo i consueti patteggiamenti tra le correnti che dominano il Csm. «E allora nessuno faccia la madamina, qui dal 1993 ad oggi – s’indigna una fonte del Giornale ai vertici dello stesso Dap – sono passati una dozzina di personaggi nominati dai vari ministri, ma scelti sempre con le stesse logiche. Ovvero senza badare alla loro effettiva preparazione e, soprattutto, alla loro capacità di gestire un situazione carceraria sempre più complessa. Anche perché nessuno rimane mai in carica per più di tre anni e non ha quindi il tempo di comprendere i problemi del mondo carcerario».
Dall’inadeguatezza dei vertici al malfunzionamento del sistema il passo – fa capire Daniela Caputo – è assai breve. «Stiamo assistendo ad un processo mediatico alla polizia penitenziaria, ma il Dap non ha ma fatto nulla per farla crescere e trasformarla in un corpo di polizia capace ed efficiente. A vent’anni dalla vicenda di Sassari non si è avviata una riflessione seria su cosa si pretende dalla polizia Penitenziaria. Gran parte del personale non ha seguito corsi di ordine pubblico o di gestione degli eventi critici. E poi manca la catena di comando. I nostri comandanti di reparto hanno un potere decisionale puramente teorico perché in realtà alla fine decide sempre il loro superiore gerarchico ovvero il direttore del carcere. Quindi i nostri funzionari hanno un’autonomia decisionale limitata, ma poi quando succede il fattaccio pagano anche per le scelte di chi gli sta sopra dal direttore d’Istituto fino ai vertici del Dap». Anomalie e mancanze ammesse anche dalla fonte del Giornale all’interno del Dap. «È vero i continui cambi di guida ai vertici hanno impedito di creare un corpo di Polizia Penitenziaria veramente professionale. Per contro la moltiplicazione degli stranieri e dei tossicodipendenti nelle carceri ha generato un aumento esponenziale nelle aggressioni. Ormai non passa giorno senza che un agente venga aggredito o colpito. Questo crea rabbia e frustrazione che in assenza di educazione e professionalità generano risentimento e vendetta. Ma il problema stenta a venir capito. Anche perché chi ci comanda spesso è solo di passaggio».