Amianto, “Mio padre ucciso dal cancro preso in Marina, l’indennizzo dopo un calvario di 9 anni e 5 processi”

Marina Militare pensioni gonfiate
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Matteo Sabbioni è un orfano. Suo padre è stato ucciso da quelle fibre di amianto che hanno sconfitto i militari della Marina militare italiana durante una guerra che i soldati non sapevano di dover combattere.

Nella mente di Matteo continuano a trascorrere le immagini degli undici mesi passati prendendo quattro treni ogni settimana per restare vicino al padre. Ricorda quel dolore alla spalla divenuto allarmante quando la tosse si accompagnava a piccole macchie di sangue. E non riesce a scordare il responso dei medici che non lasciava spazio a molte speranze.

Un calvario, quello affrontato dal marinaio malato e dalla sua famiglia, che non è terminato neanche con la morte del militare Domenico Sabbioni. Perché da quel momento la sua famiglia ha dovuto iniziare a lottare, a combattere per ottenere i diritti che gli spettavano.

Quello della famiglia Sabbioni non è un caso isolato. Ma la faccenda ha una peculiarità: Matteo Sabbioni è riuscito a ottenere in pieno i diritti che le leggi italiani prevedono per i parenti di quei soldati che non sapevano di respirare fibre nocive che gli avrebbero garantito un mesotelioma praticamente letale. Non è stato facile: “Abbiamo combattuto 9 anni e affrontato 5 processi per ottenere questo risultato”, dice il quarantenne romano.

La malattia letale contratta lavorando per la Marina

Il papà di Matteo, Domenico Sabbioni, non combatteva al fronte. E non lottava contro i terroristi in paesi stranieri. Il militare era un motorista della Marina militare, uno di quelli che non hanno i riflettori puntati addosso, ma collaborano per garantire i servizi che la Difesa italiana assicura ai suoi cittadini.

Era a bordo della nave Mincio: “La mamma ci mostrava sempre le sue foto, le lettere che riceveva quando papà era imbarcato in una delle tante missioni, come quando andava a portare l’acqua nelle isole minori della Sicilia rimaste isolate”, ricorda Matteo. “Mamma ha conservato anche la sua divisa – continua – dopo 40 anni sul cappello sono state rinvenute fibre di amianto”.

Domenico Sabbioni non è morto in guerra, ma ha dato la vita servendo il suo paese: è stato ucciso nel 2012 da un mesotelioma contratto per aver respirato, trent’anni prima, le fibre di amianto presenti nella nave Mincio. Una malattia subdola e praticamente letale, perché si manifesta dopo diversi anni e ha un indice di sopravvivenza del 5%.

Lo Stato non abbandona le famiglie di chi ha dato la vita per servirlo. I fatti dimostrano però che clausole e cavilli possono rendere difficile il percorso di chi pretende che le istituzioni si assumano le proprie responsabilità.

La delusione dell’orfano: “Non pensavo si accanissero contro una vittima”

“Papà è stato riconosciuto vittima del dovere, ma le vittime del dovere a differenza delle vittime del terrorismo perdono una serie di benefici – spiega Matteo – Per le vittime di terrorismo è previsto un indennizzo alla vedova e agli orfani senza alcuna distinzione, mentre per le vittime del dovere c’è una clausola: viene riconosciuta un’indennità solo a chi al momento del decesso è a carico fiscale della famiglia”.

Per questo motivo a Matteo è stata chiusa la porta in faccia: “Come dire che chi è autosufficiente non soffre”. Quando al quarantenne è stato comunicato che lo Stato non gli avrebbe riconosciuto alcuna indennità è restato a bocca aperta. Nella sua mente sono trascorse le immagini degli undici mesi iniziati nel luglio del 2011. “Lavoravo fuori Roma, sono un discografico. All’inizio a papà faceva male la spalla. Poi è iniziata la tosse, le macchie di sangue e il responso dei medici: il mesotelioma non lascia scampo”.

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Da quel momento Matteo raccoglie tutte le sue energie per continuare a lavorare e stare vicino alla sua famiglia. Al suo fianco c’è sempre Elana, sua moglie: “Finivamo di lavorare il venerdì sera, da Verbania con il regionale in due ore arrivavamo a Milano Centrale. Da lì prendevamo il Frecciarossa che dopo tre ore ci portava a Roma. Arrivavamo di notte, il venerdì. Ripartivamo la domenica pomeriggio per essere a lavoro il lunedì. Lo facevamo tutte le settimane, per undici mesi. Un calvario umano che si è trasformato in calvario giudiziario quando papà è venuto a mancare”, spiega il discografico.

“Ci siamo messi in contatto con l’avvocato Ezio Bonanni e l’Osservatorio Nazionale Amianto e abbiamo chiesto i nostri diritti, perché nessuno ti bussa alla porta per darti ciò che ti spetta, e ci vogliono anche diversi processi prima di riuscire ad ottenerlo. Mia mamma e mia sorella hanno avuto le prestazioni previdenziali dopo un estenuante percorso giudiziario e ancora lottano per ottenere una parte dei diritti che continuano ad essere negati dal Ministero della Difesa. Io sono stato escluso da subito invece”, dice Matteo mentre ricorda il verdetto del tribunale di Tivoli: “Per me era una sconfitta umana più che giuridica. Mi aspettavo un supporto e delle scuse da parte di uno Stato che mi aveva già privato di un padre, non pensavo si accanissero contro una vittima. Invece per ottenere i diritti che mi spettavano ho dovuto scontrarmi con processi infiniti e sentenze beffarde”, continua il racconto.

La battaglia legale: 9 anni e 5 processi

Il percorso è stato lungo. L’osservatorio e il suo avvocato sono riusciti a non far archiviare il caso della morte dei marinai della marina militari dalla procura di Padova e il procedimento avocato dalla procura di Venezia adesso è in corso. Ma nel frattempo tra Roma e Tivoli si è giocata un’altra partita giudiziaria che riguarda i risarcimenti. La madre e la sorella di Matteo hanno lottato per godere in toto di ciò che gli spetta, visto che inizialmente gli è stato concesso solo un assegno di 258 euro, circa la metà di quanto previsto.

Matteo invece ha dovuto combattere una battaglia più grande. La sua unica colpa è stata quella di essere autosufficiente, di andare fuori dalla sua città, lontano dalla sua famiglia, quando aveva quasi 25 anni. Il tutto per lavorare, per garantirsi uno stipendio.

“È inaccettabile che, dopo essere stato al capezzale di mio padre per undici mesi e aver perso l’affetto di un genitore morto per aver prestato servizio a uno Stato irriconoscente, la Difesa non riconosca i diritti di vittima del dovere a un orfano, costringendolo a soffrire altri 9 anni e affrontare cinque processi. Nell’ultimo la magistratura ha finalmente costretto il ministero della Difesa a riconoscermi le prestazioni previdenziali e l’indennizzo che mi spetta”, dice adesso Matteo, a cui la corte d’Appello di Roma ha finalmente riconosciuto il suo diritto a ricevere l’indennizzo.

“E’ paradossale che il Ministero abbia riconosciuto il motorista Domenico Sabbioni come vittima del dovere solo dopo la sua morte e sia arrivato a negare i diritti del figlio Matteo discriminandolo incomprensibilmente con motivazioni futili. E’ inaccettabile tanto più per il fatto che il decesso è conseguente allo svolgimento di un servizio per la collettività”, dichiara dopo la sentenza l’avvocato Bonanni.

Osservatorio Nazionale Amianto: “Nella Marina almeno 570 casi di mesotelioma”

L’Osservatorio Nazionale Amianto ha denunciato già dal 2008 l’impressionante numero di casi di malattie asbesto correlate tra coloro che hanno svolto servizio nella Marina Militare Italiana: 570 casi di mesotelioma fino al 2015. “Quello che succede in Italia con le stragi silenziose dell’amianto è una ferita aperta. Non solo per le tonnellate ancora da smaltire, ma soprattutto per i tanti orfani che ha lasciato che devono lottare con lunghissime cause giudiziarie per il riconoscimento di un diritto sacrosanto”, dicono dall’Ente che lotta contro quel materiale che ancora oggi è troppo spesso presente in diverse costruzioni.

La battaglia di Matteo invece è un’altra, parallela: “È assurdo che alle vittime del dovere non vengano riconosciuti gli stessi diritti delle vittime del terrorismo. Considero anticostituzionale il fatto che la sofferenza di un orfano venga misurata in base al regime fiscale al momento della morte del padre, finendo per trattare fratello e sorella, figli dello stesso genitore, in modo diverso. Questa è la battaglia che stiamo combattendo insieme all’avvocato Bonanni e all’Ona e mi auguro che questa vittoria possa servire a riscrivere una nuova pagina di una magistratura, che fino ad oggi si è rivelata crudele nei confronti delle vedove e degli orfani di vittime del dovere”.

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