La riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani, benché ampiamente attesa, è stata sorprendente per la sua rapidità. L’offensiva dei talebani era cominciata a maggio, dopo la conferma da parte del presidente Joe Biden del ritiro dei soldati americani, già precedentemente negoziato e deciso dall’amministrazione di Donald Trump. Le operazioni dei talebani hanno però preso velocità solo di recente: le capitali provinciali del paese sono cadute una dopo l’altra e domenica i talebani sono entrati a Kabul, senza incontrare grande resistenza.
La ragione principale di questa conquista così rapida è stata il collasso dell’esercito e delle forze di polizia afghane. Benché l’impreparazione e l’inefficienza dell’esercito fosse nota da tempo, la maggior parte degli esperti militari occidentali aveva comunque previsto che le forze armate avrebbero opposto un qualche tipo di resistenza all’avanzata dei talebani. Come ha scritto il New York Times, a giugno l’intelligence americana aveva stimato che ci sarebbe voluto ancora un anno e mezzo di guerra prima che Kabul fosse minacciata. È bastato poco più di un mese.
Le cause di questo crollo improvviso sono in parte strutturali: a vent’anni dall’invasione americana, né il governo afghano né gli Stati Uniti sono riusciti a trasformare l’esercito in una forza pronta al combattimento. Il ruolo principale l’ha avuto però il ritiro americano, che ha fatto precipitare tutti i problemi che già esistevano e ne ha creati di nuovi mostrando come, senza il supporto militare e logistico degli Stati Uniti, l’esercito afghano non fosse in grado di tenere testa alla forza tutto sommato modesta dei talebani.
Sulla carta, l’esercito afghano era una forza militare solida, che avrebbe avuto la capacità di difendere se stessa e il paese, come dissero Biden e i funzionari americani annunciando il ritiro. Contava 350.000 soldati (molti di più delle forze dei talebani, stimate tra i 50.000 e i 100.000 uomini), e almeno in teoria aveva a sua disposizione un’aviazione abbastanza consistente, droni sia per l’attacco sia per la ricognizione, mezzi pesanti e armi sofisticate fornite dagli Stati Uniti. Inoltre, ancora una volta almeno in teoria, poteva contare su quasi vent’anni di addestramento da parte non soltanto degli Stati Uniti, ma anche di numerosi altri eserciti occidentali che avevano partecipato alla missione della NATO in Afghanistan, compresa l’Italia.
Secondo una stima diffusa dai giornali americani, dal 2001 a oggi gli Stati Uniti hanno speso 82 miliardi di dollari nell’addestramento e nell’equipaggiamento dell’esercito afghano. Il problema, ha scritto il New York Times, è che «non è chiaro dove tutti quei soldi siano finiti».
I 350 mila soldati dell’esercito afghano erano probabilmente molti meno – forse meno della metà, secondo alcune stime. I numeri erano in parte gonfiati dal governo nazionale, e in parte dai comandanti locali dell’esercito, che in questo modo potevano intascare i salari dei soldati che avevano abbandonato o disertato. L’esercito afghano, benché equipaggiato dagli americani, era anche male armato, soprattutto nelle zone più periferiche, dove nei giorni dell’avanzata dei talebani scarseggiavano sia le armi sia le munizioni.
Più in generale, le condizioni di vita dei soldati erano spesso misere. Come hanno raccontato diversi media americani, i fucili con cui erano equipaggiati valevano diversi mesi del salario della maggior parte dei soldati. Negli ultimi mesi in alcune zone del paese il governo aveva sospeso i pagamenti e aveva smesso di inviare non soltanto le munizioni, ma perfino razioni di cibo sufficienti al sostentamento.
[sc name=”pubblicit” ][/sc]Buona parte di questi problemi è da imputare all’inefficienza del governo, ma soprattutto alla corruzione, che riguardava tutti i ranghi dello stato afghano ma era grave soprattutto nell’esercito. Come hanno detto alcuni militari locali al Washington Post, il collasso dell’esercito afghano è da imputare più alla corruzione del governo e dei comandanti che all’incompetenza dei soldati.
Negli ultimi mesi, inoltre, la decisione degli Stati Uniti di ritirarsi completamente dall’Afghanistan aveva lasciato l’esercito locale demoralizzato e convinto che, senza l’aiuto e il supporto americani, la vittoria dei talebani fosse inevitabile. Il primo passo era stato l’accordo di Doha, la capitale del Qatar dove l’anno scorso una rappresentanza dei talebani e l’amministrazione Trump, escludendo il governo afghano, avevano concordato i tempi e i modi del ritiro americano, praticamente senza condizioni.
Il morale dei soldati si era ulteriormente aggravato quando il presidente Joe Biden, ad aprile, aveva confermato che il ritiro americano sarebbe avvenuto entro settembre. Agli occhi di molti militari e funzionari locali, la decisione prima di Trump e poi di Biden non significava soltanto che l’America stava abbandonando l’Afghanistan, ma anche che stava abbandonando il governo afghano, ritirando di fatto il suo sostegno politico.
A quel punto, molti soldati hanno cominciato a chiedersi se valesse ancora la pena combattere, e in pochi hanno continuato a essere disposti a rischiare la vita per il governo afghano, corrotto, incapace di formulare una strategia di resistenza e di riunire i vari gruppi etnici e tribali attorno a un’unica causa nazionale.
Trovatisi ad affrontare un esercito male equipaggiato, demoralizzato, impoverito e spesso affamato i talebani sono stati abili nell’approfittare della situazione. A partire dall’anno scorso, ha scritto il Washington Post, hanno cominciato a fare accordi con le forze governative, offrendo soldi e amnistia in cambio della resa e della consegna delle armi. Questi accordi sono stati fatti prima nelle zone rurali e più remote, e poi si sono estesi al livello delle capitali provinciali, spesso mediati dai capi tribali locali.
Alcuni comandanti hanno accettato le offerte dei talebani per soldi, ma altri l’hanno fatto perché convinti che, dopo il ritiro americano, la vittoria dei talebani fosse inevitabile. «Il giorno della firma [dell’accordo di Doha] abbiamo visto un cambiamento», ha detto un ufficiale dell’esercito al Washington Post. «Tutti hanno cominciato a pensare a se stessi. È stato come se [gli Stati Uniti] ci avessero condannati al fallimento».
Quando i talebani, grazie a questi accordi, hanno cominciato a conquistare ampie zone rurali dell’Afghanistan incontrando poca o nessuna resistenza, la loro avanzata è apparsa sempre più inarrestabile, anche quando non lo era. Perfino in basi militari o in città in cui la difesa delle forze governative avrebbe potuto essere consistente, spesso i soldati afghani hanno deciso di non combattere, perché convinti che la sconfitta fosse certa.
Abbas Tawakoli, un brigadiere generale che era di stanza nella città di Kunduz prima della sua caduta, ha detto al New York Times: «Nessuna regione [dell’Afghanistan] è caduta a causa della guerra, ma a causa della guerra psicologica».
Questo non significa che tutti i soldati afghani si siano arresi senza combattere. In alcune zone, come per esempio a Lashkar Gah e Kunduz, i combattimenti sono stati relativamente intensi, spesso grazie alla resistenza di gruppi appartenenti alle forze speciali, di gran lunga il corpo meglio preparato e più combattivo di tutto l’esercito, i cui membri nelle scorse settimane sono stati inviati a rafforzare le difese di numerose città, spesso però in numeri insufficienti per fare la differenza. Più in generale, bisogna ricordare che l’esercito afghano, benché corrotto e inefficiente, è stato quello che ha sopportato più perdite in questi vent’anni di guerra: oltre 60 mila persone.
Gli scarsi tentativi di resistenza di questi mesi sono stati resi più complicati da alcune scelte strategiche dell’esercito americano, come ha scritto il Wall Street Journal. Al momento di formare l’esercito afghano, infatti, i comandanti militari americani decisero di strutturarlo a immagine dell’esercito statunitense, che fa grande affidamento sull’aviazione per quasi tutte le operazioni: i rifornimenti delle basi, l’attacco degli obiettivi, il trasporto dei feriti, le operazioni di intelligence.